In aumento la leishmaniosi nell’uomo: in sei anni nel Lazio registrati 161 casi

LA PATOLOGIA Colpisce principalmente i cani, ma si può trasmettere anche agli esseri umani

Erano una decina alla fine degli anni ’80, oggi sono circa 200 all’anno i casi di leishmaniosi nell’uomo accertati in Italia, una malattia parassitaria scoperta agli inizi del ’900 e soggetta dagli anni ’30 a denuncia obbligatoria. Trecentonovantadue casi in Campania, 261 in Sicilia, 161 nel Lazio, 62 in Puglia, 57 in Sardegna, 42 in Lombardia e via via decrescendo. In tutto 1196 casi dal ’98 al 2004.
Il problema riguarda anche i cani, anzi soprattutto i cani (in Italia oltre 7 milioni secondo una stima recente), perché esiste la leishmaniosi canina. Infatti nell’uomo il rischio di sviluppare la malattia è molto basso e interessa soprattutto persone affette da gravi malattie che compromettono il sistema immunitario, come l’Aids. Non tutti i cani però rispondono allo stesso modo all’infezione, alcune razze appaiono più resistenti, altre come il boxer e il dobermann meno, vuoi perché a pelo corto o perché vivono all’esterno.
La leishmaniosi colpisce tramite il flebotomo o pappatacio, che è il vettore responsabile che infetta il cane e può trasferirsi ad altri cani e all’uomo. I pappataci sono piccoli insetti che come dice il nome volgare, succhiano sangue senza fare rumore. Fino agli anni ’90 si ritenevano assenti dalle regioni continentali del Nord Italia e invece, scavalcata la Pianura Padana, complici inverni miti e umidità, sono ovunque, attivi dalla primavera all’autunno, dal crepuscolo all’alba.
Sono loro i responsabili della diffusione nei cani di una malattia un tempo considerata tropicale e ora diffusa in tutta Italia, anche ai piedi del Monte Bianco. Ma nessun allarmismo, non c’è contagio diretto né fra cane e cane, né da uomo a uomo, «bensì da animale a uomo, in questo caso tramite insetto vettore», precisa il professor Luigi Gradoni dell’Istituto Superiore di Sanità. «Il cane - prosegue - è il serbatoio comprovato della leishamaniosi», in cui l’infezione trasmessa durante la stagione estivo-autunnale può decorrere in maniera inosservata per mesi o anni. E a differenza dell’uomo che curato bene guarisce, nel cane i medicinali non eradicano la malattia. Per questo «l’asse portante è la prevenzione», dice il dottor Marco Melosi vicepresidente dell’associazione italiana veterinari. Si tratta di una malattia insidiosa e di difficile diagnosi, l’ideale sarebbe evitare le zone endemiche e il contatto con i pappataci.

Ma è impossibile e allora in mancanza di un vaccino, utilissimi risultano i collari e l’uso di principi attivi (come la Deltametrina e la Permetrina, approvati in ambito comunitario), da applicare direttamente sul cane.

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