Ci sono due cose di cui non puoi non accorgerti quando parli con lui: la profonda conoscenza del settore e le sue radici siciliane (di Lipari, una delle isole Eolie per l'esattezza) che si palesano in una leggera ma mai celata inflessione. Marco Saltalamacchia, una vita nell'automotive (prima Renault, passando per Fca e Bmw) è presidente del gruppo Koelliker, azienda leader nell’importazione e distribuzione di automobili da oltre 80 anni in Italia. E traccia un'analisi della mobilità del futuro partendo da un presupposto fondamentale: l'Europa e l'Italia possono ancora giocare la partita.
Presidente, andiamo dritti al sodo: qual è lo stato del settore automotive in Italia?
"È sicuramente un momento – se vogliamo dare la versione ottimista – di grande fermento".
E se vogliamo dare la versione pessimista?
"È un momento di disruption (di rottura, ndr) perché molti modelli che sono stati consolidati per decenni sono in una fase di fortissimo ripensamento. Da un lato c’è voglia di chiudere un ciclo ma dall’altro non è chiarissimo quale sia il nuovo ciclo che si vuole aprire".
Ci spieghi meglio.
"L’industria automotive in Italia ahimè ormai da decenni è un’industria in forte contrazione soprattutto dalla parte dello sviluppo, della progettazione, dell’assemblaggio, fabbriche che producono ce ne sono sempre meno così come c'è sempre meno capacità di integrazione, di progettazione e di sviluppo".
Chi sono i colpevoli?
"Il sistema industriale italiano e la politica industriale italiana non hanno saputo costruire un tessuto consolidato. Io faccio spesso l’esempio della Gran Bretagna, che anche se sotto il profilo della proprietà capitalistica non ha più una industria nazionale rimane tuttora un grande produttore di auto. Jaguar Land Rover anche se indiana produce in Gran Bretagna, Nissan produce in Gran Bretagna, Bmw attravreso Mini e Rolls Royce producono in Gran Bretagna, quindi il sistema inglese è riuscito a mantenere una sua attratttività e competitività. Lo stesso sono riusciti a fare paesi dell’Est Europa come Polonia, Romania, Repubblica ceca, Slovenia. La Spagna è riuscita a mantenere una forte base produttiva e viaggia intorno ai 3 milioni di auto all'anno".
E l'Italia?
"Credo che quest'anno farà 400mila auto complessivamente. Noi abbiamo un po’ perso il treno, ma abbiamo ancora eccellenze nel settore della componentistica, pensiamo a Brembo o a Magneti Marelli, realtà che sono fornitrici della grande industria, insomma la cultura e la capacità di partecipare allo sviluppo dell’automotive come paese Italia le abbiamo e le manteniamo. Se abbiamo un po’ perso il treno nel mondo endotermico, sull'elettrico c'è ancora speranza".
In che senso?
"Non è che la California fosse una realtà automotive prima che Musk decidesse di stabilirsi lì per produrre Tesla".
Al momento non c'è né una California italiana né un Musk italiano...
"Sì, però vede, l’auto elettrica richiede un set di competenze tradizionali come il design, lo stampaggio delle scocche, i sistemi delle trasmissioni, le sospensioni, gli pneumatici. Altre competenze invece sono molto specifiche come la batteria e i sistemi di software che gestiscono le batterie, quindi l’auto elettrica è un capitolo nuovo nel quale a un certo punto un paese può decidere da un giorno all’altro di investire sull’elettrico".
Per ora il dominio è cinese.
"La Cina storicamente fino alla fine del secondo millennio era assolutamente indietro sulla produzione dei motori endotermici, poi partendo dal classico prato verde ha deciso che il futuro sarebbe stato elettrico, hanno investito su questa tecnologia e adesso dopo dieci anni raccolgono i risultati. Però c'è una differenza importante rispetto al motore endotermico".
Quale?
"Un motore endotermico è un po’ come fare gli orologi, è una stratificazione di capacità di precisione meccanica e una continua ricerca di un livello sempre maggiore di sofistificazione che non è facile riprodurre. In Europa questo stesso livello di perfezione poi si è trasformato in un regolamento diventando per gli altri costruttori una barriera all’entrata. Molti costruttori, noi ne rappresentiamo uno come Mitsubishi, sono arrivati a rinunciare a sviluppare quelle tecnologie specifiche in Europa proprio perché gli standard erano troppo elevati".
Dove vuole arrivare?
"Come europei eravamo convinti di essere una fortezza, ma l’automotive è tutto meno che una fortezza. E il livello di investimento necessario per fare delle auto che siano alla portata di tutti è talmente colossale che paradossalmente un continente non è sufficiente a garantire un business attuale ed efficace. Basti pensare a Opel che ha sempre fatto tanta fatica per restare in piedi perché era soltanto europea e si trovava nell’arena più competitiva del mondo. Perché in Europa sono presenti tutti i marchi perché è un continente con la capacità di acquisto più alta del mondo e perché i consumatori più ricchi del mondo sono in Europa e quindi i prezzi delle auto più alti del mondo sono in Europa".
Ma l'errore qual è stato?
"In questo scenario noi italiani ci siamo chiusi tanto e non abbiamo permesso di generare un campione globale, al contrario la chiusura ci ha indebolito, noi pensavamo che le barriere che 30 anni fa sono state opposte ai giapponesi, poi ai coreani, poi al diesel ci rafforzassero (ricordiamoci che in Italia i motori diesel erano penalizzati da un super bollo perché l’industria nazionale non sapeva produrre il diesel ma produceva benzina, è un grande paradosso tra l’altro perché l’iniezione diretta del diesel l’abbiamo inventata in Italia e poi l’abbiamo venduta a Bosch, i tedeschi ci hanno creduto più di noi). Abbiamo protetto l’industria impedendo che la Ford si comprasse l’Alfa Romeo, abbiamo impedito a Toyota di entrare in Italia perché avrebbe potuto crare concorrenza e aumentare la domanda rispetto ai fornitori e quindi il timore di mamma Fiat era che i fornitori aumentassero i prezzi. Il fatto di aver protetto così tanto questo mercato non ha fatto il bene del nostro mercato. I tedeschi fra di loro se le suonano di santa ragione e hanno dimostrato di avere capacità di sviluppo globale".
Lei sta puntando il dito contro la miopia della politica industriale e l'assenza di investitori stranieri.
"Il ministro Giorgetti poco tempo fa ha dichiarato che bisogna incentivare gli investimenti in Italia e sono assolutamente d’accordo".
Però...?
"Però ci vuole coraggio perché l’investitore può essere spaventato dal sistema giudiziario italiano e dalla sua lentezza, dal cuneo fiscale, dal costo del lavoro e dal costo complessivo per l’azienda della forza lavoro che è più elevato e con un produttività potenzialmete più bassa. Sono tutti fattori sui quali la capacità di incisione della politica è stata modesta. Si potrebbe intervenire con le zone speciali, creando dei progetti, pensando alla decontribuzione. Oggi io credo che l’opportunità ci sia".
Ci indichi una strada.
"Noi di Koelliker spesso veniamo dipinti come gli apriporta dei cinesi in Italia, un po’ è vero, ma il motivo non è ideologico ma pragmatico perché noi siamo importatori e oggi 8 marchi su 10 sono cinesi perché loro sono i primi sull’elettrico. Ma è sostentibile un elettrico prodotto in Cina? Nei nostri dialoghi coi cinesi spesso pungoliamo sull'opportunità di investire in capacità produttiva in Europa anche perché è complesso ordinare un oggetto costoso e ingombrante come un’auto a 14mila km di distanza, i costi attuali sono altissimi, 3-4 volte sopra di quanto fossero prima della pandemia. In un mondo in cui il cliente si vede e si aspetta una vettura consegnata e customizzata come lui la vuole in 15 giorni per noi è dura e ci vogliono dai 4 ai 12 mesi per consegnarla. Il tutto poi comporta uno sforzo finanziario importante. Per me la soluzione migliore è che i cinesi aprano qui le loro fabbriche. Alcuni lo stanno facendo sulla parte progettazione, design, ma è ancora poco".
Il futuro europeo dell'auto dipende dai cinesi, insomma.
"Beh, il mercato cinese ha salvato i bilanci di molti costruttori occidentali, pensiamo a General Motors, ai tedeschi, che sono andati a vendere e a produrre in Cina instaurando joint venture o parternship. Bisogna mollare la logica di conflitto ed entrare in una logica di collaborazione non passiva: vieni in Europa, ti faccio investire, generi occupazione, generi sviluppo. L’elettrico che piaccia o meno è il futuro e noi non abbiamo perso il treno. Quando parlo con Bosch che non hanno mai fatto un’auto ma hanno fatto tanti motori elettrici, li provoco e chiedo loro: ma quand'è che tirate fuori l’auto elettica? Oppure Askoll, azienda italiana che vende motorini elettrici e che era partita con i motori elettrici per le lavatrici. Le barriere all’entrata con l’elettrico a dispetto di quanto si possa pensare sono crollate. Se domani a Magneti Marelli passasse per la testa di fare un’auto elettrica non sarebbe una roba così assurda, è un momento in cui si rimescolano le carte e cambiano tantissimi paradigmi. Le faccio un altro esempio".
Dica.
"Smart non è più di Mercedes ma è cinese perché i tedeschi premium prima avevano segmenti più piccoli per abbassare le emissioni di flotta della CO2 e non incorrere in multe milionarie. Nel momento in cui ibrido ed elettrico diventano dominanti, Bmw e Mercedes non hanno più il problema del CO2 e quindi piuttosto che fare auto piccole da 20mila euro si dedicano ad auto più costose. Ma questo vuole dire che si aprono nuove opportunità di mercato per altri che vogliono entrare in quel tipo di segmento. Possibile che non ci sia nessuno che abbia voglia di cogliere questa opportunità?".
Vuole lanciare un appello?
"Se noi avessimo due o tre costruttori che vengono qui a produrre alimenterebbero un indotto importante che non è solo fatto di occupazione ma di fornitori che fanno a gara a innovare. Quando si tratta di incentivare gli investimenti esteri ogni mercato nazionale gioca la sua partita da solo e può essere comprensibile, ma qualcuno prenda in mano la questione, potenzi l’istituto del commercio estero, cerchi di ragionare in termini di partenariato e costruisca le condizioni vere perché nel nostro paese qualcuno abbia voglia di fare qualcosa. Il vantaggio che oggi ha la Cina sulle auto elettriche è nel software perché l’hardware è fatto di motori elettici che sono due secoli che li facciamo come europei, il sistema di trasmissione, gomme, scocche, assemblaggio, la vera competenza oggi è quello che si chiama il Battery management system (BMS) cioè il software di gestione della batteria. I tedeschi su questo non mollano, sfornano una mole incredibile di ingegneri. Il ritardo sul software si può recuperare".
Sembra che riponga fiducia solo sui tedeschi.
"Loro dicono sempre che il 40% della compenentistica che hanno la comprano dall’Italia. Sulla progettazione e prototipazione e design noi abbiamo realtà invidiabili come Pininfarina, Italdesign, noi sappiamo farle le auto. E il sistema europeo è un sistema integrato".
In Italia, e in parte anche in Europa, c'è anche il problema delle infrastrutture.
"Vero, si sta progredendo su molte direttrici, sulla diversificazione della potenza, le nuove abitazioni hanno tutte le colonnine, in realtà però quello che è in ripensamento è il modello di mobilità".
In che senso?
"C'è il tema dell'inurbamento: le città tenderanno sempre più a respingere le auto. Poi c'è il tema demografico: nascono meno bambini e quelli che nascono hanno un rapporto sempre meno emotivo con l’automobile. Ciò porta a un ripensamento del modello di mobilità che non è più proprietaria e individuale, adesso è più condivisa e punta anche sull’autonomo. Qual è il modello di infrastruttura per la mobilità che noi vogliamo immaginare per i prossimi 20 anni? È questa la grande sfida. Finora abbiamo sempre subito la mobilità, stavolta dobbiamo progettarla. È una sfida che supera il singolo costruttore".
Voi come gruppo Koelliker come affrontate questa transizione?
"Nel 2023 facendo gli scongiuri sembra che ci lasceremo alle spalle i problemi della pandemia e dei microchip. Il mercato ha segni positivi negli ultimi mesi, ci aspettiamo che il 2023 possa segnare un bel rimbalzo. Per quello che riguarda noi, dovremmo avere una crescita a doppia cifra perché abbiamo ordini insoddisfatti per qualche decina di milioni di euro. Vivivamo e vivremo per i prossimi 20 anni un'economia di transizione, il passaggio a un diverso modello di mobilità avverrà per gradi, ci sarà chi già da oggi trova convenienza con l'elettrico e chi la troverà tra 5 o 10 anni. In questa logica Koelliker ha l’ambizione di diventare un distributore. Vogliamo cambiare la nostra pelle e passare da terzisti della distribuzione a player della distribuzione".
Come?
"Stiamo cercando di costruire un portafoglio affinché qualunque cliente possa avere e trovare una risposta. Stiamo investendo sull’usato perché ci sono trenta milioni di italiani che circolano sull’usato e ogni anno c’è il doppio delle transazioni sull’usato rispetto al nuovo. Questi clienti hanno bisogno di garanzie, assistenza, sicurezza. La nostra missione è quella di avere delle gamme di modelli dall'endotermico come SsangYong e Mitsubishi fino all’elettrico puro, dalle microcar alle ammiraglie, ma magari anche le due ruote e gli scooter fino ad arrivare ai veicoli commerciali e agli autobus elettrici. Kollekier deve diventare un attore della mobilità capace di dare risposta a chiunque".
Massima diversificazione insomma.
"Sì, la
logica è avere un portafoglio che permetta di coprire tutto evitando sovrapposizioni tra i vari marchi, questo ci permette di essere flessibili in una economia di transizione senza legarci esclusviamente a un singolo concept".- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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