Sangue brigante. Il destino di Sallusti un conservatore all'incrocio dei venti

"L'eresia liberale" è uno sguardo personale sulla libertà e la tolleranza

Sangue brigante. Il destino di Sallusti un conservatore all'incrocio dei venti

Sasso, carta, forbice. Non capita di vederci più di tanto fuori dal lavoro, per pigrizia, perché frequentiamo strade diverse, per la solitudine dei direttori, perché semplicemente va così, eppure c'è una stanza proprio qui in redazione dove ci ritroviamo, quasi ogni giorno, per chiacchierare di scapricciate varie e raccontarci le nostre cose, anche personali. È una strana confidenza e per nulla scontata. Alessandro Sallusti ha una corteccia invisibile sulla pelle e sta lì, sospetto, fin da quando era ragazzo. Non è una forma di difesa. È una sorta di pudore. Non ama mettersi a nudo. È per questo che quando gli dico di raccontarsi in un libro mi guarda con la faccia stranita. «Ma a chi gliene frega della mia vita?». «Molti hanno un'idea sbagliata di te». «Pazienza». «Secondo me venderebbe». Scuote la testa: «Io mi sento a disagio perfino a mettermi in costume sulla spiaggia, figurati se metto in piazza l'anima». Nessuna autobiografia. Nessuna confessione, non adesso, forse mai.

È quello che ho pensato fino a qualche settimana fa. Adesso che ho tra le mani L'eresia liberale (Rizzoli, pagg. 272, euro 19) mi rendo conto che quella corteccia un po' si è aperta al pubblico e che questo libro mostra lo sguardo privato di Sallusti. Racconta. Si scopre. Non solo ti dice come lui vede il mondo, da liberale che non ha paura di sporcarsi le mani, eretico dentro un'eresia, ma mostra le sue ferite, le paure, le illusioni, con chi si sente a proprio agio e di chi diffida. Ci sono pezzi della sua vita, che spiegano scelte e opinioni. Ci sono le cicatrici. La più profonda ha a che fare con il suo arresto, surreale, per una querela di sponda, per responsabilità oggettiva. «Erano venuti a prendermi alle 11.30 del primo dicembre 2012, nella sede del Giornale in via Negri a Milano, su mandato della procura in esecuzione di una sentenza definitiva a un anno e due mesi di carcere per omesso controllo, in altre parole perché responsabile di un'opinione scritta da un altro collega querelato, guarda caso, da un magistrato. Non era mai successo nella storia del giornalismo italiano che un direttore fosse arrestato, per di più dentro un giornale, che alla pari delle università è un luogo simbolo della libertà di pensiero e espressione. Eppure entrarono...». È che lui è uno che non si tira indietro. Quando arrivano i colpi se li prende. È orgoglio. È carattere. È lessico familiare. È sangue.

La storia del trisavolo brigante pensavo fosse una leggenda. Invece esiste davvero. Si chiamava Fiore Sallusti e viveva a Fiamignano, un borgo oggi in provincia di Rieti. Le cronache dell'Ottocento lo battezzano come capo dei briganti dell'Abruzzo meridionale. La sua è una guerra di resistenza, contro i Savoia, contro il regno d'Italia e per i Borboni. È finito dalla parte sbagliata della storia e nel 1865 viene arrestato e condannato ai lavori forzati a vita. I Sallusti si ritrovano spesso dal lato sbagliato. È quello che capita al tenente colonnello Biagio Sallusti, il nonno di Alessandro. È il comandante della piazza militare di Como. Il 21 dicembre 1943 tocca a lui, nel fuggi fuggi generale, presiedere il tribunale che condanna a morte Giancarlo Puecher, giovane partigiano arrestato tre anni prima. Sallusti ci mette la firma e per questo nel 1946 verrà condannato a morte dalla repubblica italiana. La notte prima di essere fucilato scrive una lettera alla moglie Lina: «Spero che la mia sorte contribuisca alla pacificazione degli animi di questa martoriata Italia». Una lettera l'aveva scritta anche Giancarlo Puecher e anche lui si augurava che un giorno ci sarebbe stata una unità nazionale». Non è andata del tutto così, certe storie sembrano non chiudersi davvero mai. Alessandro Sallusti in realtà ci ha fatto i conti fino in fondo. Si può essere liberali e libertari lasciandosi alle spalle i ricordi di famiglia. «Per nulla al mondo rinnegherei la memoria di mio nonno, ma con uguale forza non rimpiango quella storia di cui lui ha fatto parte». Il fascismo ha un albero genealogico lungo e vasto, proprio per questo è tempo di lasciare che i morti seppelliscano i morti.

Chi è allora l'eretico liberale? È un conservatore dei valori occidentali, quelli che ti parlano di libertà e democrazia, quelli che si battono per diritti che sognano universali, anche adesso che tanti, in ogni parte del globo, li considerano vecchi o, come dice Putin, obsoleti. Sono la libertà di pensiero, di coscienza, di religione, di espressione. Sono il diritto alla salute e alla dignità del lavoro. Non sono un elenco, ma il segno di una civiltà, la certezza che nessuno può essere schiavo, muto o invisibile. Sono diritti non concessi ma riconosciuti, perché vengono prima dello Stato e appartengono a te, a ognuno, a tutti. È questo l'universo che l'eretico liberale continua a difendere. Sallusti lo fa a modo suo, qualche volta da polemista timido, senza mai sentirsi vittima, per nulla permaloso, perché «quando sali sul ring le prendi e le dai». È uno che non crede nella verità della razza, della classe, del popolo, della fede o della nazione. Non crede nei profeti dell'assoluto, nei Torquemada e nei Savonarola di ogni tempo e ideologia. È un individualista, minoranza di minoranza, con squarci di generosità irrazionale, senza calcoli, senza aspettarsi nulla. Non si tira indietro nelle schermaglie verbali, ma nessuno lo ha mai sentito delegittimare l'avversario, togliendogli la dignità della parola. Può essere spinoso, ma di certo è tollerante. Non è un sentimento così scontato, soprattutto dall'altra parte.

Qualche volta il destino lo porti anche nel nome. Non ci sono prove che Gaio Sallustio abbia a che fare con Alessandro. È solo un mia fissa, da vite parallele, e su questo ogni tanto lo prendo in giro. Qualche analogia però c'è. Sallustio è cronista di parte. Sta con Cesare e non sopporta Bruto e Cassio. È uno storico che non nasconde il suo punto di vista e le sue idee. Quando racconta la congiura di Catilina rivede la versione di Cicerone e porta sulla scena anche le ragioni dello sconfitto. Sallustio vede la crisi della res publica e la racconta con questo stile asciutto, essenziale, qualche volta ruvida, ma che arriva direttamente al lettore, senza arabeschi. È la capacità di suscitare emozioni con una descrizione realistica. La famosa «sobrietà tragica» di Sallustio. Qui di solito Sallusti, quello reale, dice che proprio questa è la prova che non ha nulla a che fare con Sallustio. Ti sbagli. Seneca lo liquidava così: «Pensieri troncati e brusche interruzioni e una concisione che tocca l'oscurità». È sempre questione di punti di vista.

Ci sono tante storie in questa «eresia liberale». C'è il suo rapporto con Silvio Berlusconi, il legame di riconoscenza con Vittorio Feltri, ci sono i suoi santi intellettuali, le canzoni che ascolta, quel sogno da bambino che ha realizzato: il pilota di aerei con tanto di brevetto. Il mezzofondo giovanile, quando si allenava con Alberto Cova, medaglia d'oro poi alle Olimpiadi di Los Angeles. C'è l'incontro con Papa Francesco, che gli chiede di pregare per lui, ma senza cattiveria. Il racconto più bello è quello del «pastore politologo». È la guida alpina Luigi, secco come un grissino e agile come uno stambecco, che vive in un paese di 314 abitanti sulle Alpi Apuane. È un compagno di passeggiate di Sallusti. Un giorno, mentre seguono un sentiero che sale verso il Monte Forato, Luigi chiede a Alessandro: chi vincerà le elezioni? È la primavera del 2022. Sallusti si perde in una serie di supercazzole per poi chiuderla così: «Situazione complicata, se si va a votare può succedere di tutto». Luigi lo guarda con un pizzico di commiserazione: «Vincerà la Meloni». «Scusa ma che ne sai tu di politica». La risposta è semplice e disarmate: «Questa è l'aria che tira». È una lezione di realismo.

Alla fine mi tocca. C'è anche la storia di Ilaria Salis, finita in prima pagina sul Giornale, quando il suo non era ancora un caso nazionale. Era il 22 gennaio 2024. «Il dovere morale di riportare a casa Ilaria».

La firma è la mia, la scelta è sua. «Ne è valsa la pena?», si chiede adesso nel libro. La mia risposta è sì, ma non ti ho mai detto di dare retta ai miei consigli. Non ho mai saputo giocare a morra, neppure quella cinese. Carta, forbice, sasso.

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