Avviso ai naufraghi

Si fatica sempre di più a riconoscere come un governo l'esecutivo guidato da Romano Prodi. L'ultimo atto è la smentita più netta dell'esistenza di una coalizione. È una mozione di sfiducia nei confronti di un ministro presentata da altri quattro ministri i quali, pur avendo l'occasione di appuntamenti settimanali per discutere e decidere, hanno scelto la forma inedita di una lettera per porre un ultimatum. Pecoraro Scanio, Ferrero, Bianchi e Mussi rappresentano i quattro partiti della «sinistra sinistra» e hanno disconosciuto, scrivendolo nero su bianco, l'operato di Tommaso Padoa-Schioppa. Di fronte alle scelte del titolare dell'Economia, non hanno chiesto delle correzioni, hanno rivendicato il capovolgimento di un'impostazione su punti chiave, dallo scalone alla legge Biagi.
Dunque, un attacco a tutto campo. Il bersaglio è una figura indebolita dalle ultime vicende, a cominciare dal «caso Speciale» e finendo con il pesante attacco che gli ha mosso l'altro giorno il segretario della Cgil Epifani e con le critiche mossegli dal partito di Di Pietro per la vicenda Alitalia. Una sorta di capro espiatorio di una maggioranza che, dall'epoca della Finanziaria, non riesce a prendere decisioni condivise e che sta affondando nella sfiducia generalizzata dell'opinione pubblica. Ma lo scopo vero della mossa compiuta da questa «banda dei quattro» in salsa italiana ha un significato strategico: imprimere il marchio della sinistra antagonista sulla crisi che attanaglia il governo e porre a Romano Prodi un aut-aut che non riguarda solo le scelte di politica economica e sociale, ma le sue ultime speranze di tenuta.
Si è trattato di un atto che non ha molti precedenti. I rappresentanti di Rifondazione, dei Verdi, del Pdci e della neo-nata Sinistra democratica non sono andati avanti in ordine sparso. Si sono presentati come un fronte compatto e hanno battuto il pugno sul tavolo. Sul piano strettamente politico, si è trattato certamente della risposta alla svolta impressa dalla candidatura di Walter Veltroni alla guida del Pd, che segna l'esaurimento di una stagione e l'inizio di una fase in cui, nell'Unione, ambisce ad essere più forte, se non egemonica, la componente «moderata». È stata quindi una mossa improvvisa, anche se forse prevedibile, alla quale il premier non ha potuto replicare se non con una formula cerchiobottista, dando ragione agli uni e all'altro, senza lasciar trasparire un'opinione né un pensiero, ma solo guadagnando tempo. Ma così, Prodi ha confermato ancora una volta di essere prigioniero delle ambiguità che stanno alla base del suo governo. E ha rivelato di non saper cosa fare, di sentirsi agli sgoccioli, stretto fra la discesa in campo di Walter Veltroni, che sta vivendo come il preannuncio della sua messa in mora, e la reazione dell'ala estrema dell'alleanza.


È la conferma della precarietà istituzionale in cui versa l'Italia. Dello sfacelo provocato dal centrosinistra, il cui tempo è ormai scaduto e che appare come una zattera di naufraghi litigiosi alla mercè di una tempesta che non si placa.

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