(Dis)united Colors of Benetton. Era la metà degli anni ’80 e in una società «liquida» (nulla a che fare con la «Milano da bere»...) i cartelloni raffiguranti frotte di «bimbi multietnici» giganteggiavano sui muri delle metropoli. Il sodalizio «utopico» Benetton-Oliviero Toscani incarnava l’essenza visionaria di quel politicamente corretto che ci avrebbe accompagnato con mano demagogica-progressista per i successivi 40 e che, ancora oggi, stenta a mollare la presa. Ma la stagione d’oro del bimbo diavoletto nero che abbraccia il bimbo angioletto bianco è ormai un ricordo lontano. Schemi superati non solo sul fronte del, presunto, «alto» messaggio sociale» ma anche sul «basso» (almeno per gli ultrà dell'anticapitalismo) piano economico.
Gli «scatti choc» del giovane Oliviero che facevano presa nell’era della réclame digitale sono state bypassate dagli spot dell'advertising analogico; idem per l’anacronistico franchising globale dello slogan «Tutti i colori del mondo» sormontato dagli scatti «provocatori» (l’aggettivo più inflazionato nelle celebrazioni post mortem di Toscani): roba vecchia, superata, già da un paio di generazioni, dal pragmatismo dell’e-commerce che delle elucubrazioni della Uniter Colors of Benetton con la pubblicità «impegnata intellettualmente» - ma in realtà usata come pretesto per vendere capi di abbigliamento - se ne infischia altamente. Di quel metodo Benetton e Toscani sono stati campioni, coccolati dalla sinistra radical chic che però alla lana ruvida dei maglioni Benetton preferiva la carezza morbida del pullover in cashmere. Ma adesso in casa Benetton più che ricordare nostalgicamente i fasti fotografici dei poster di Toscani sulla ricerca di un’«umanità migliore», sono concentrati sui freddi riscontro del bilancio aziendale. Che necessita di un profondo rilancio.
«Il caso Benetton offre importanti spunti di riflessione per chi opera nel mondo del franchising - sottolinea Enrico Tosco, CEO di Reting ed esperto del settore -. Negli anni '80 e '90, Benetton ha costruito il proprio successo su una forte identità di marca, grazie a campagne pubblicitarie iconiche firmate da Oliviero Toscani. Queste campagne non si limitavano a vendere abiti, ma promuovevano valori universali come inclusività, diversità e diritti umani. Oggi, però, il brand sembra aver perso quella voce unica che lo rendeva speciale, scegliendo un posizionamento più neutrale e meno distintivo.
E la prima lezione chiave che emerge dalla vicenda è proprio questa: un marchio senza anima non può costruire una connessione duratura con i consumatori». Senza contare il colpo di grazia giunto nel 2020: il licenziamento inevitabile, da parte di Benetton, di Toscani, reo di aver offeso con una frase infelice le vittime del crollo del ponte Morandi.
Oliviero si scusò subito, giurando che quelle «sue parole erano state decontestualizzate e fraintese». Ma non servì a nulla. Si era passati da «Toscani contro tutti» a «Tutti contro Toscani». Ma questa è un’altra storia...- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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