La banalità del male e quella degli uomini

Come molti frequentatori di librerie, quando arrivo alla cassa per pagare non resisto al fascino di quei librettini che gli editori destinano al banco-cassa: libri-gadget, o quasi, che si prendono all’ultimo istante, come i campioncini di profumeria - con la differenza che questi si pagano. Per soli 3 euro potrete, a esempio, portarvi a casa il testo di Due lettere sulla banalità del male (Nottetempo, pagg. 40) che il filosofo sionista Gershom Scholem e la grande pensatrice Hannah Arendt si sono scambiati nel 1963 dopo la pubblicazione del celebre libro della Arendt dedicato al processo Eichmann.
La tesi centrale della Arendt, che Scholem contesta (ma con cattivi argomenti) è che il male «non è mai radicale» e che «non possiede né profondità né dimensione demoniaca». Esso può «devastare il mondo intero precisamente perché si propaga come un fungo», mentre «solo il bene ha profondità e può essere radicale». Il male «sfida il pensiero (...) perché il pensiero cerca di attingere alla profondità, di pervenire alle radici, e nel momento in cui si occupa del male viene frustrato, perché non trova niente».
Come non dare ragione alla Arendt? Quanti libri sono stati scritti nel vano tentativo di comprendere come uomini come noi abbiano potuto rendersi responsabili dell’orrore di Auschwitz! Di quella biblioteca, alla fine ci resta tra le mani quasi soltanto Primo Levi. Eppure ho sempre avuto l’impressione che a questa tesi così persuasiva mancasse qualcosa. Il male è banale, sì, ma ci affascina: la sua banalità intrattiene una conversazione con la banalità che c’è in noi. Una zoppìa è banale, però ci fa camminare storti. E, a lungo andare, tutto il corpo ne risente gravemente.
Per gli antichi filosofi esso era la parte nera dell’universo: qualcosa che, semplicemente (banalmente) non ha ragione, non ha giudizio, non ha perché, non ha profondità: si trova sui margini del non-essere, però c’è. Non esiste infatti modo migliore di farlo trionfare che decretare la sua non-esistenza.
Forse il male risulta comprensibile solo nell’istante in cui balena la possibilità che si volga in bene. Il cristianesimo annuncia questa suprema possibilità, e sant’Agostino ne parlò diffusamente.

La banalità del male è la nostra stessa banalità, la banalità ontologica di chi non ha l’essere ma lo deve continuamente ricevere. Sapendo questo, l’uomo può cominciare a operare il bene, che non è la correttezza etica ma la possibilità data a questo nulla di compiere le opere dell’essere, cioè di Dio.

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