È stato uno dei più gravi choc petroliferi della storia recente. Ma rispetto a quelli degli anni Settanta del secolo scorso, rimasti nella memoria di chi ha una certa età, è stato uno choc al contrario. Allora i prezzi si impennarono all'improvviso, fino a paralizzare i maggiori Paesi industrializzati. In questo caso il valore del barile è precipitato fino a valori di poco superiori ai 20 dollari: dall'inizio di marzo il calo è stato del 50% e oltre. Colpa del virus, che ha fermato trasporti e consumi. Ma non solo: a pesare è la guerra, o forse il minuetto, che si è scatenato tra i tre protagonisti del mercato: Russia, Arabia Saudita e Stati Uniti. A prima vista per Paesi consumatori come il nostro potrebbe essere una specie di Bengodi con un bel risparmio da segnare nella cosiddetta «fattura petrolifera». Ma solo a prima vista, però, perché il tracollo è stato tale da mettere in discussione la struttura stessa del mercato, con esiti che possono essere imprevedibili e sul lungo periodo dannosi. E non è un caso che la scorsa settimana, mentre il Coronavirus mieteva vittime in tutto l'Occidente, i Paesi del G7 abbiano sentito il bisogno di rivolgere un appello ai produttori «per cercare di aiutare gli sforzi per mantenere la stabilità economica globale». Un paradosso, se ci si pensa, visto che in questo caso il pericolo è un mancato accordo che ha fatto precipitare (e non alzare) le quotazioni. Va detto, tra l'altro, che agli automobilisti italiani, dalla guerra in corso sono arrivati per il momento ben pochi benefici. Certo, al distributore i prezzi di benzina e gasolio sono calati un po', ma non quanto dovrebbero. Secondo una ricerca di Nomisma Energia pubblicata nei giorni scorsi restano più cari di 22,4 centesimi (benzina) e 15,3 (gasolio) rispetto al livello che tiene conto dei recenti cali del mercato internazionale.
LO SGAMBETTO
Il crollo delle quotazioni del petrolio è iniziato ufficialmente ai primi del mese scorso, quando i Paesi dell'Opec hanno deciso una riduzione della produzione per sostenere i prezzi messi a dura prova dal calo dei consumi legato alla diffusione del coronavirus. La Russia era legata ai maggiori produttori da un accordo detto Opec plus, che almeno negli ultimi quattro anni ha sempre garantito uniformità di comportamenti. Questa volta però Vladimir Putin ha detto no. E anziché chiudere i pozzi, ha al contrario aumentato la produzione. A questo punto anche l'Arabia non si è sentita più vincolata dai tagli decisi e ha aperto ancora di più i rubinetti. Il prezzo è crollato fino a livelli che non si vedevano da quasi una ventina d'anni, e cioè dal periodo successivo all'attacco delle Torri Gemelle.
Che cosa ha motivato la decisione del leader del Cremlino? C'è chi attribuisce alla mossa la volontà di rimettere in discussione il patto implicito che ha sorretto l'equilibrio geopolitico degli ultimi anni. La disciplina di Arabia Saudita e Russia, sempre pronte ad auto-regolamentare la propria produzione per sostenere il prezzo del petrolio in una fascia tra i 40 e i 60 dollari al barile, ha consentito agli Usa di diventare il primo produttore mondiale, grazie sopratutto alla tecnica del «fracking», che permette di estrarre gas e petrolio dalle rocce di scisto. È un sistema costoso e i grandi produttori americani non sembrano in grado di reggere a livelli di prezzo così bassi, visto anche il loro indebitamento. I colossi dello «shale oil», il petrolio di scisto, hanno sul groppone quasi 130 miliardi di dollari di obbligazioni, una bella fetta del mercato americano dei titoli a basso rating. Secondo le letture complottistiche Putin si è trovato nella situazione di poter ottenere due obiettivi: buttare fuori dal ring concorrenti pericolosi sul mercato petrolifero, e mettere in crisi il sistema finanziario Usa, destinato ad essere travolto da un'ondata di fallimenti.
FORZIERI PIENI
Negli anni Putin ha accumulato sostanziose riserve (circa 550 miliardi di dollari) che gli consentirebbero di sostenere a lungo una guerra dei prezzi. Secondo un'analisi della rivista Foreign Policy con il petrolio a 27 dollari il barile, livelli di prezzo non lontani dagli attuali, al governo di Mosca basterebbero 20 miliardi all'anno delle riserve per tenere in equilibrio il bilancio. Lo spazio di manovra sarebbe dunque ampio. C'è però chi ha dei dubbi. Dall'inizio dell'anno il leader del Cremlino ha mostrato di voler avviare un inedito programma di investimenti pubblici, utili per rinnovare le infrastrutture del Paese e allo stesso tempo per garantirsi il sostegno dell'opinione pubblica, ultimamente in flessione per la stagnazione dell'economia. Anche per Putin dunque una guerra portata fino in fondo può avere un prezzo alto. Lo stesso si può dire per l'Arabia Saudita. Il Paese ha i costi di estrazione minori e una potenza finanziaria imponente, ma è anche impegnato in una importante riconversione economica e culturale voluta dal numero uno di fatto, il principe Mohammed Bin Salman. Un elemento, questo, che può rendere delicato il ricorso massiccio ai deficit di bilancio. A scompaginare tutte le previsioni è arrivata poi un'altra mossa di Putin, che venerdì si è detto disponibile a tagliare la produzione, ma a un'unica, inedita, condizione: che per la prima volta anche gli americani facciano la loro parte riducendo un po' il petrolio estratto. La prima conseguenza è stata il rialzo delle quotazioni del petrolio, la seconda potrebbe essere chiara oggi, giorno in cui è in programma una riunione del già citato Opec Plus. I tagli potrebbero esserci ma per alfieri del libero mercato come gli americani adattarsi a una politica di cartello sui prezzi potrebbe non essere facile. Quanto alle conseguenze di una guerra nemmeno i Paesi consumatori potrebbero cavarsela a costo zero. «Penso già alla prossima fase del ciclo di mercato», spiega Davide Tabarelli, presidente e fondatore di Nomisma Energia. «Prezzi troppo bassi si traducono nel blocco degli investimenti in nuova produzione. Il che in futuro vorrà dire squilibri nell'offerta e prezzi più alti».
TUTTI FERMI
Per il momento, come detto, il crollo delle quotazioni internazionali è passato inosservato o quasi agli automobilisti italiani. Non solo perché l'intero parco-macchine è praticamente appiedato, ma anche perché i prezzi sono scesi di poco. «Non si vende quasi nulla» spiega Stefano Cantarelli vice-presidente di Anisa-Confcommercio, l'associazione dei gestori di impianti autostradali. «Le compagnie hanno comprato a prezzi più alti e preferiscono salvare i margini di guadagno piuttosto che abbassare i prezzi». Le cifre le ha fatte la già citata ricerca di Nomisma Energia: il prezzo di benzina e gasolio è composto da tre voci: tasse (tra il 64 e il 68%), materia prima acquistata sui mercati internazionali e quello che viene definito margine lordo, una categoria onnicomprensiva a copertura di tutti i costi, dal trasporto al margine del gestore, fino alla pubblicità.
Negli ultimi 24 mesi l'andamento medio di questa voce e la sua incidenza percentuale sul prezzo finale determinano un margine definito ottimale intorno ai 14 centesimi al litro. Rispetto a questa cifra il prezzo della benzina è in questo momento (i dati si riferiscono al 30 marzo) superiore di 22,4 centesimi al litro, quello del gasolio superiore di 15,3 centesimi.
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