Da Vicenza a Varese. Due assemblee di industriali, tutte e due alla presenza di Luca Cordero di Montezemolo. Stesso film, secondo tempo, diverso protagonista. A Vicenza era intervenuto Silvio Berlusconi e, a parte le prime file (la dirigenza di Confindustria), aveva incassato un consenso vistoso e molto ampio. A Varese, ieri, ha parlato Guglielmo Epifani e ha incassato una selva di «buu!».
Che aveva detto Berlusconi? Che il programma di Prodi e la sua coalizione avevano poco da spartire con le imprese. E che Confindustria aveva fatto male a sposarsi, già prima delle elezioni, con questo schieramento.
Che ha detto, ieri, a Varese, Epifani, il leader della Cgil? Ha detto poco ma con la retorica strabordante e, sinceramente, anche un po' fastidiosa con cui generalmente dice anche le cose più ovvie. Quel poco, comunque, odora di stantio, di muffa, di passato. Non poteva mancare la Legge Biagi. Lui la chiama Legge 30. Ebbene questa legge, ha sentenziato, «per le imprese è simbolo di libertà, per noi è un simbolo di precarietà». Il più potente italiano sindacalista aveva anche detto, precedentemente, che su queste cose bisogna «ragionarci a mente fredda». Meno male, se no chissà cosa si sarebbe inventato. Solita storia: capitale da una parte, quella delle imprese, lavoro dall'altra, quella dei lavoratori. Il tempo, per Epifani, passa invano. I secoli si susseguono senza risultato. Si rimane sempre allo stesso punto. Non c'è globalizzazione ed evoluzione dei mercati che tenga. Così è e così rimane, come per Bertinotti, come per Diliberto. Uno è anche diventato presidente della Camera.
Come se non bastasse Epifani ha anche parlato della «cultura del dovere» che, a suo giudizio, è incarnata dal sindacato. Qui le contestazioni sono salite alle stelle. Aveva davanti i rappresentanti della quarta associazione industriale italiana. Varese ha davanti solo Torino, Brescia e Milano. Conta 1.400 imprese per un totale di 75.000 dipendenti. Forse un po' di dovere ce lo hanno anche gli industriali nella loro cultura. O no? O devono aspettare Epifani che glielo spieghi? Ma come se ancora non bastasse il segretario della Cgil, in mezzo ai fischi, ha ricordato che «furono gli operai che nel '43 difesero le fabbriche dai nazisti». Bene. Ma che c'entra? Qui di nero non c'è il nazismo, c'è la situazione di quelle persone che non rientrano, soprattutto giovani, nella cittadella dei protetti di Epifani e compagni e ai quali in alternativa alla precarietà propongono un mondo che non c'è. Quel mondo contro il quale aveva combattuto Marco Biagi ed altri.
Una parte importante del sindacato italiano è d'accordo con Epifani. Ma è d'accordo con lui anche una parte consistente del governo. E chi non è d'accordo ingoia il rospo perché il rospo alternativo è la caduta del governo che di questi signori a meno non può fare. A sentir parlare Epifani vengono in mente quelle foto ingiallite che furono scattate tanto tempo fa. La sua concezione dell'economia, del lavoro, dello sviluppo sono ferme là. Non è mica un caso che per far cessare i fischi e i «buu!» abbia parlato della lotta al nazismo nelle fabbriche nel 1943. Poteva dire altro. Poteva affrontare la questione settentrionale. Poteva spiegare e spiegarsi, come direbbe Marzullo, perché al Nord ha vinto il centrodestra, perché fischiano lui e applaudono Berlusconi. Niente di niente.
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