Giocare alla Pete Maravich: il mago forzato dell'Nba

"Pistol" Pete ha stappato un modo spettacolare di stare sul parquet, ispirando le generazioni successive. Costretto, depresso, risorto: il lungo incantesimo di Maravich

Giocare alla Pete Maravich: il mago forzato dell'Nba

Cosa c'entrano la pallacanestro e la seconda guerra mondiale? Certamente niente, in moltissimi casi. Tutto, se prendiamo la singolare esperienza di Petar Maravich. Metti di essere emigrato in America dalla Serbia all'età di due anni in cerca di fortuna. Metti di aver perso il padre per un incidente ferroviario. Poi tutti e nove i tuoi fratelli per la falcidiante epidemia di Spagnola. Eppoi aggiungici che sei quasi riuscito a riscattarti con una palla a spicchi stretta tra i polpastrelli. Però un giorno arriva il secondo conflitto e devi sciropparti tre anni nel Pacifico, chiedendoti ogni sera se vedrai sorgere il sole successivo. La vita che poteva essere si contrae in fretta e non l'afferri più. Dopo la guerra te ne torni ad Aliquippa, in Pennsylvania, e rimugini su come recuperare il tempo perduto.

Ecco. Chiaro che poi se nasci figlio di un genitore così, qualche pressione diventa inevitabile. Nel caso di Pete Maravich però, l'ossessione paterna lambisce increspature patologiche. Petar è persuaso. Se non c'è riuscito lui, a giocare in Nba, vorrà dire che toccherà al figlio, Pete. Lo sottopone a sessioni d'allenamento sfinenti fin dalla più tenera età. Intende costruire in vitro il giocatore perfetto. Pare la classica storia del pargolo vessato dal padre per diventare un atleta bionico. Nel caso di Pete però si aggiunge un tassello che fende il monocromo dell'agonismo. Di suo ci mette la magia.

Calzino che copre appena la caviglia. Chioma liscia e fluttuante. Dieta vegana fin dai tempi del liceo. Maravich jr sarebbe già un personaggio solo per questo. Ma c'è di più. Il piccolo Pete è un asso sul parquet. Finte disorientanti. Triple sfrigolanti. No look in scioltezza. Strapazza e irride gli avversari con naturale disinvoltura. Troppo rilucente per non entrare nell'iride degli atenei più potenti d'America. Vorrebbe andare a West Virginia, ma il padre entra di nuovo fuori tempo nella sua vita. No, dev'essere la Louisiana State University, perché il suo vecchio è appena stato nominato head coach.

Pete però non ha tempo, almeno non adesso, per smarrirsi a causa dei modi da smargiasso del padre. Gracile e giovanissimo, inizia a sfoggiare un repertorio decisamente troppo ingombrante per quel contesto. Passaggi sotto le gambe in salto, cambi di mano disgreganti e poi quella tecnica di tiro che nessuno ha mai visto prima, con la palla che viene estratta al livello dell'anca e poi scagliata verso il canestro. Come fosse un pistolero. La media è di 44 punti a partita. Gli assit nemmeno a contarli.

Decisamente troppo forte per non avere la fila. Se lo aggiudica una franchigia ambiziosa, gli Atlanta Hawks. Il passaggio nel basket che conta è però più intricato del previsto. Maravich appare appannato. Fatica più del dovuto. La sua media punti si dimezza. I critici ci vanno a nozze. Non ha la stoffa per stare a questi livelli. Vedrai che è solo l'ennesima promessa non mantenuta del basket americano. I suoi stessi compagni lo detestano. Guadagna molto più di loro e non passa mai la palla. Si gingilla con quegli inconcludenti numeri circensi.

Pete dapprima incassa le critiche gonfiando il petto. Poi si lascia gradualmente andare. La bottiglia diventa un rifugio sicuro. La depressione galoppa. Inizia ad arrivare tardi agli allenamenti. I suoi colpi in campo, pur mai visti prima di allora, non servono per vincere il titolo. Così Atlanta decide di disfarsene. Il colpo fortunato della vita di Maravich.

Lo ingaggiano i New Orleans Jazz. Gli consegnano la canotta numero 7. Lo mettono al centro del progetto. E Pete si sente di nuovo maledettamente speciale. Per festaggiare il nuovo inizio si dà una ripulita. Via i baffi che campeggiavano sotto al naso. Calzettoni alzati al ginocchio. Pezzi di magia che diventano tangibili: meno globetrotter, più fattore. Una resurrezione in piena regola. Potrebbe condurre la squadra al titolo, non fosse che lo frega la sua attitudine all'incantesimo. Tenta un passaggio sotto la gamba contro i Buffalo Braves, atterra male e addio ginocchio.

Non tornerà mai più quello di prima. Anche quando, approdato ai Boston Celtics accanto al fenomeno Larry Bird, proverà a far sparire di nuovo la palla a spicchi. Una vistosa fasciatura alla gamba sinistra, unita a postumi mai del tutto smaltiti, distillerà il suo straripante talento. Chiuso il conto con la pallacanestro, si avvicinerà all'induismo e alle tecniche dello Yoga. Una notte - rivelerà - sogna che Dio gli ha chiesto di diffondere il verbo. Si converte al cristianesimo e inizia a girovagare per il Paese, predicando.

L'epilogo arriverà presto, perché tutti gli eroi muoiono giovani. Si accascerà - amaro paradosso - sul parquet di un campo da basket a Pasadena, mentre gioca un match amichevole. Ha soltanto quarant'anni. Infarto. Accertamenti successivi riveleranno che era nato senza l'arteria coronaria sinistra.

Ma il trucco di ogni buon pezzo di magia è, in fondo, la

rapidità. Quel movimento che le pupille non riescono a carpire. Pete Maravich ha fatto il suo gioco di prestigio e si è dissolto nel nulla. Ma la scia di quelle bocche spalancate continua a ispirare ogni singolo giorno.

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