Benelli spara a salve poi annuncia il ritiro

nostro inviato a Pechino
Azzurri come il cielo di Pechino: grigio intenso. La nazionale italiana dell’atletica ha voluto dar subito un segno chiaro sulle sue potenzialità. Fuori la punta, Howe, ed anche le seconde linee: che pena la Martinez, che miserie nel peso femminile (Rosa tredicesima in finale, Legnante fuori). Quante illusioni perdute nella marcia di Brugnetti. Collio si conferma velocista da passeggio (10”33 nei quarti). Solo la Cusma e Romagnolo (record italiano nei 3000 siepi), insieme a Obrist hanno cercato di mostrar miglior faccia nel mezzofondo. Ci ha salvato la cubana d’importazione: Libania Grenot Martinez non deve ancora aver respirato a pieni polmoni l’atmosfera della real casa atletica se ieri è riuscita a vincere la sua batteria dei 400 metri e ad abbassare il record italiano, che era già suo: stavolta si è fermata a 50”87, battendo anche la primatista mondiale stagionale, ovvero Amantle Montsho, stessa età (25 anni), quasi stessa data di nascita (ma in Botswana) della nostra. Niente male, se non fosse una goccia in un mare di desolazione.
Ha tradito Andrew Howe ed è stato un colpo basso. Impossibile pensare che potesse arrivare ad una medaglia, ma il nostro Peter Pan non si è nemmeno qualificato per la finale. Tre salti, uno nullo, il migliore a m. 7,81, misura ideale per i campionati societari, non certo per l’Olimpiade. Ventesima posizione in classifica e tanti saluti. Unica consolazione: gli hanno fatto compagnia gli americani, fuori con misure peggiori o appena superiori alla sua. Lewis e Powell non avranno parole.
Cosa è successo? O cosa non è successo? Howe lo ha spiegato con quel viso eternamente sorridente, non proprio di pertinenza per l’occasione. D’accordo sul fatto che l’allenamento fosse approssimativo, ma non si difende in quel modo un argento conquistato ai mondiali dell’anno passato. «Ed infatti io ero venuto qui per ripetere quella prestazione. Ma ero allenato male. Non avevo stacco, nemmeno reattività». Maledetti quei 200 metri che, in giugno, lo hanno messo ko. Da allora Howe non ha più gareggiato, né saltato con l’impegno di una gara. «Nell’atletica non si inventa niente. Sono venuto ai Giochi perché non si può rinunciare a una occasione simile. E adesso sono arrabbiato. Ero io che dovevo mangiare la pedana ed invece sembrava lei a mangiar me». Profeta fu quello spot che lo invitava a un sano turismo. Howe non ci ha creduto finché non è arrivato in pista. Ha sprecato anche questa Olimpiade: ad Atene fermato da un infortunio, qui da un fisico arrugginito. «Ma sono giovane, potrò riprovare».
Buon per lui, non certo per questa Italia dell’atletica, che insegue qualche miracolo. Ivano Brugnetti ci ha creduto per una quindicina di chilometri: 20 km di marcia, temperatura sopportabile, circuito molto semplice intorno al Nido d’uccello. Ma quando il russo Borchin ha dato lo strappo decisivo, il nostro è rimasto a guardare. Quell’altro aveva miscela super (naturale?), il nostro andava a carbone. «Ma non mi arrendo, voglio riprovarci a Londra». Antonio La Torre, il suo tecnico, gli ha fatto i complimenti. «Non ha sbagliato, è mancata la tenuta». Anche se non bisognerebbe dimenticare che Brugnetti era la medaglia d’oro uscente. Che, poi, la marcia viva su corsi e ricorsi lo ha dimostrato Jefferson Perez, lo straordinario campione dell’Ecuador, unico ad essere rimasto in scia al russo, e tornato alla medaglia dopo 12 anni (vinse ad Atlanta ’96). Brugnetti è rimasto ad una decina di secondi dal bronzo. «Meglio uno come lui che altri». Parole e commento secco di Franco Arese, che non deve aver digerito l’ennesimo flop di Magdelin Martinez. L’altra cubana d’Italia si è fatta eliminare nelle qualificazioni del triplo saltando come una cavalletta senza ali (m.

14,00): dal punto di vista sportivo vivere in Italia l’ha fatta soltanto regredire. Era un’ipotesi di saltatrice, ora sembra una ex.
C’è da grattarsi la crapa. Sì, questa sembra proprio l’Olimpiade in cui l’Italia starà a guardare.

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