Una «Bohème» impeccabile illumina l’Arena

Daniel Oren ha diretto un nuovo allestimento dell’opera pucciniana con un Marcelo Alvarez superbo Rodolfo

Una «Bohème» impeccabile illumina l’Arena

Alberto Cantù

da Verona

«All’aperto si gioca alle bocce» era solito dire Arturo Toscanini che non amava le arene estive. Sul non far musica sotto le stelle è d’accordo anche oggi la maggior parte dei direttori: pure il vulcanico James Levine, interpellato, fra i molti, senza successo, dalla Fondazione Arena di Verona. Chi invece nell’anfiteatro veronese è di casa da anni e ci sta come a casa sua, è Daniel Oren, uno fra i rari maestri di rango il quale in Arena riesce a compiere prodigi di suono «bello» e sostanzioso, ricco e sfumato.
Che il successo della Bohème, tornata a Verona in un nuovo allestimento, lo si debba anzitutto ad Oren, lo conferma il gioco di squadra impeccabile nonostante la prova generale sia saltata per la pioggia. Così la sintonia con i cantanti (quella «Gelida manina» tutt’uno con sonorità soffici e squisitissime) era la solita: evitando protagonismi da divo, perché qui i diritti della voce sono pressoché assoluti, ma senza calare le braghe a discapito del compositore. Alle soglie dei quindicimila spettatori, cioè del «tutto esaurito», il pubblico ha apprezzato e applaudito, col calore ruspante dell’Arena, un cast eccellente sino a punte notevolissime.
La punta più alta è senza dubbio Marcelo Alvarez. Sino a pochi anni fa - anche alla Scala - prevaleva, nel suo Rodolfo una tinta iberica: vale a dire calda, vibrante, accalorata ad oltranza. Oggi Alvarez, con sfumature e pianissimo calcolati al millimetro, con un fraseggio arioso e teso al contempo, è anche il tenore lirico puro, quasi «di grazia», richiesto dalla parte. La festeggiatissima Fiorenza Cedolins è una Mimì meno sentimentale del consueto. Nel controllo dei fiati, voce dal vibrato particolare, il soprano «cresce» nel corso dell’opera. Trova una cupa disperazione nel duetto con Marcello, dolcezze struggenti nel rimandare l’addio «Alla stagion dei fiori», maliosi effetti della memoria quando la morte si approssima. Marcello, alias il polacco Marius Kwiecien, è un’autentica rivelazione (voce piena, morbida e ben tornita) così come Musetta, l’albanese Ainhoa Arteta, che trasforma il suo piccolo, nostalgico valzer in una grande aria. Bravissimo Fabio Previati (Schaunard) e bravo - meno nella «Vecchia zimarra» - Carlo Colombara. Cori di Marco Faelli preparati a dovere: adulti e bambini.
Convincono meno la regia del francese Arnaud Bernard e le scene e i costumi del nostro William Orlandi. E il minimalismo-design di uno spazio tutto bianco dove la geometrica distribuzione dello spazio rappresenterebbe i tetti di Parigi (i personaggi entrano in scena emergendo da una botola).

È un Quartiere Latino sovraccarico, anche se non privo di humour, che finisce con un fuoco d’artificio di coriandoli. Manca il clima - del tutto nel quadro dei doganieri -, manca la realtà e la sua poetica trasfigurazione. Dell’impianto fisso e dei pochi elementi scenici beneficia la durata dello spettacolo con un solo intervallo.

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