Bonjour tristesse ha mezzo secolo ma racconta gli adolescenti di oggi

Torna in Italia il libro della scrittrice francese Sagan che anticipò il Sessantotto. Il suo inno alla libertà di costumi e alla trasgressione è ancora attuale

Bonjour tristesse ha mezzo secolo 
ma racconta gli adolescenti di oggi

Riappare un romanzo rivoluzionario e conservatore. Longanesi ha fatto ri-tradurre Bonjour tristesse di Françoise Sagan (1935-2004), che ha venduto decine di milioni di copie nel mondo quanti sono i decenni dalla sua uscita, avvenuta nel 1954, quando la Francia era stata appena cacciata dall’Indocina e s’accendeva la resistenza algerina. Lezioni d’umiltà arrivavano da ogni parte alla IV Repubblica. Più ingiusta che severa, l’educazione descritta nel film La cage aux rossignols di Jean Dreville (1949) - e nel suo rifacimento, Les choristes, di Christophe Barratier - non teneva più. Le si ribellavano soprattutto le educande. Ne divenne bandiera il romanzo dell’adolescente Françoise Quoirez, che sapeva già abbastanza di letteratura per prelevare lo pseudonimo Sagan da un’aristocratica della Recherche proustiana.

In Italia Bonjour tristesse fu subito tradotto per scelta di Leo Longanesi, perché non tutti i conservatori sono retrivi. Infatti il romanzo sintetizzava che a un’adolescente, specie se senza madre come la protagonista, serve un padre, non un amico in più, come già si suggeriva; e che la libertà sessuale, se offre gioie a pochi, accentua la solitudine di molti. Bonjour tristesse prefigurava dunque lo spinta e lo spirito del ’68. E i suoi limiti. Aveva comunque molto da dire anche in Italia, dove si voleva, in quel 1954, la restituzione di Trieste, ma dove «triestina», nel senso di ragazza emancipata, faceva rima con sgualdrina.

Oggi il libro è un classico, non il simbolo di una generazione che cerca conforti, non riscosse. Infatti il ceto medio, il popolo dell’Iva, prende il peggio della borghesia, che è estinta. Bonjour tristesse, invece, presupponeva una borghesia, e una buona borghesia. E poi - si può dirlo col senno di poi - fu un romanzo maledetto: impose la Sagan, la fece ricca, ma non la fece felice e, quando divenne un film, il malessere del personaggio si riversò sull’interprete. Alter ego della Sagan, Cécile - nel Bonjour tristesse per lo schermo di Otto Preminger (1958) - fu Jean Seberg. Pasquale Squitieri la ricorda per aver girato con lei Camorra: «Veniva diffamata come simpatizzante per le Pantere nere e ciò contribuì al suo suicidio. Ma era una grande professionista, bella come un angelo». Altrettanto bella, Gloria Guida sarà Angela, non Cécile, in Peccati di gioventù di Silvio Amodio, tacita ma tardiva trasposizione dell’opera della Sagan (1975) perché in vent’anni i costumi si erano così «liberati» che non c’era quasi più nulla da trasgredire. E tacita al punto che lei non se ne accorse e forse anche per questo è rimasta bella come allora, diventando anche sposa e madre felice.

Che cosa resta oggi di Bonjour tristesse? Per Anna Maria Ferrero e Jean Sorel, coppia italo-francese formatasi a Roma quando Parigi era Bardot e Sagan, Sagan e Bardot, «di Bonjour tristesse resta il senso di libertà». Trentenne regista di Mariti in prestito, Ilaria Borrelli associa però l’umanità saganiana non alle conclusioni, ma all’impronta del romanzo: «Questo modo d’intendere la vita l’ha poi scontato chi - è il mio caso - ha avuto genitori in stile ’68, che si comportavano con la leggerezza del padre di Cécile». Giacomo Airoldi, direttore del settimanale dell’effimero giovanile, Star Tv, non ha dubbi che Bonjour tristesse sia un ricordo: «Lo lessi dopo Salgàri. Mi sorprese piacevolmente. Claudio Villa vinse un Festival di Sanremo con Buongiorno tristezza: i lettori del mio settimanale conoscono la figlia di Villa dall’Isola dei famosi, ma non il romanzo». Per l’alfiere dell’odierna letteratura italiana per adolescenti, Federico Moccia, «è stato significativo per il suo periodo. Ma non è un libro della mia generazione». Giudizi che coincidono con quello di un televisionista di qualità, dunque di un ossimoro vivente, Oliviero Beha: «Bonjour tristesse, con Cioccolata a colazione di Pamela Moore, evoca i miei quindici anni. Significa la mia formazione para-scolastica e un modo complesso e assorbente di viaggiare. Potrei dire - come Flaubert - “Cécile ero io”».

Nata a Beirut, di madrelingua francese, Antonella Lualdi trova invece nella Sagan «analogie con l’oggi». Le elenca la saggista Jean Toschi Marazzani Visconti: «Ho invidiato la Sagan per la disinvoltura nei temi scabrosi per la buona società, libera dalle pastoie di un’educazione tradizionalista». E Nico Perrone, collaboratore e biografo di Enrico Mattei, riconduce il romanzo alla «fine di un equilibrio stagnante» che era quello di Paesi dove il consumismo non si era ancora imposto. Universitario neofascista quando Bonjour tristesse uscì, Tomaso Staiti di Cuddia ci vede «la faccia mondana della Parigi rarefatta dell’esistenzialismo e di Juliette Greco». Allora trentenne, Piero Ottone non attribuisce né grandi meriti, né grandi colpe, né grandi attualità al libro, «perché ha precorso, non determinato, i costumi poi affermatisi anche in Italia. Se non pare datato, è solo per la forma letteraria».

E della sua inventrice che cosa resta? Nata vent’anni dopo quell’opera, Adélaïde de Clermont-Tonnerre - che sta per esordire nel romanzo con Le mauvais rôle - nella Sagan vede «il ragazzo mancato, che lasciò gonne, fiori, pois e fruscii, per un look androgino oggi comune. Ma, diversamente da oggi, la Sagan non si proteggeva da sole, sesso, fumo. Temeva unicamente la solitudine e vi morì, una volta dileguatisi i parassiti. Di lei restano un figlio traumatizzato, libri sottovalutati perché eclissati dall’icona, lo sguardo nocciola di occhi tanto vivaci sotto il ciuffo da monello. E l’indicibile malinconia».


Diplomatico che frequenta Parigi non solo per servizio, biografo di un’altra generazione, quella di Drieu, Aragon e Malraux, anche Maurizio Serra avverte in Bonjour tristesse «un retrogusto di adolescenti malinconiche, vogliose e invaghite di uomini forti e vincenti». E coglie così il minimo comun denominatore di generazioni ormai così diverse.

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