Preti con la valigia. Missionari alla rovescia, che lasciano il Terzo mondo e vengono a rievangelizzare la vecchia Italia scristianizzata. Immigrati in tonaca che ieri hanno conosciuto la fede cattolica grazie a schiere di sacerdoti partiti dall'Occidente e oggi s'incaricano di ripopolare parrocchie e oratori. Sono indiani, congolesi, nigeriani, filippini, polacchi, romeni, sudamericani, ma anche francesi, spagnoli, nordamericani: le origini sono disparate, Paesi lontani minati da guerre e povertà come nazioni di antica fede che sovrabbondano di consacrati.
Sono più giovani dei preti di casa nostra e spesso più preparati, perché molti decidono di fermarsi in Italia dopo esservi giunti per studiare nelle università pontificie. Il loro numero è in continuo aumento, come documenta l'Istituto centrale per il sostentamento del clero (Icsc), che se ne prende cura grazie ai fondi dell'8 per mille. È il segno che esiste un bisogno, un vuoto da riempire, e a quasi tutti i vescovi (le diocesi italiane ospitanti sono 208 su 225) l'immigrazione dei clergyman consente di compensare il calo delle vocazioni e lo spopolamento dei seminari. Essi ormai rappresentano oltre l'8 per cento dei presbiteri in servizio in Italia, una quota allineata con la presenza complessiva di stranieri sul totale della popolazione residente.
Ma l'immigrazione religiosa pone anche numerosi interrogativi: perché vengono? Sono tutti animati da spirito evangelico o per qualcuno è un modo per «sistemarsi»? Fuggono da guerre, crisi, persecuzioni oppure da situazioni personali difficili? Conoscono la lingua e la realtà nella quale devono inserirsi? Come saranno accolti? E non esiste il rischio che il loro allontanarsi danneggi i Paesi di origine privandoli di preti preparati, entusiasti, disposti a trasferirsi dall'altra parte del mondo pur di svolgere la missione di sacerdoti nell'Occidente secolarizzato?
I sacerdoti stranieri in servizio nelle 225 circoscrizioni ecclesiastiche italiane (patriarcato di Venezia, 40 arcidiocesi metropolitane, 20 arcidiocesi, 155 diocesi, 2 prelature territoriali, 6 abbazie territoriali e 1 ordinariato militare) posti a carico dell'Icsc erano 1.780 nel 2005 e 2.260 al 1° maggio 2010. In cinque anni il loro numero è salito di quasi il 30 per cento e al 31 dicembre scorso è ulteriormente lievitato a 2.496: una crescita più contenuta che dimostra il consolidarsi del fenomeno.
DA UN PAESE LONTANO
La gran parte di loro (quasi il 30 per cento) proviene dall'Africa, in particolare da Congo ex Zaire, Nigeria, Congo Brazzaville, Madagascar: nazioni in miseria, insanguinate da guerre civili e persecuzioni. In questi cinque anni, tuttavia, sono cresciuti soprattutto gli asiatici dove il cristianesimo cresce velocemente e in silenzio. L'Icsc ha censito siriani, pakistani e vietnamiti. Più di uno su quattro è europeo, soprattutto polacchi, romeni e spagnoli. Un altro 15 per cento arriva dall'America Latina. Di un prete su 20 è impossibile stabilire la cittadinanza: anche il clero ha i suoi profughi. Nel complesso si contano 110 Paesi di provenienza, compresi Iraq, Isole Fiji, Papua, Samoa, Russia, Corea del Sud. L'età media delle tonache immigrate è piuttosto giovane, 45 anni contro i 59 dei sacerdoti italiani. La loro distribuzione sul territorio nazionale non è uniforme. La regione in cui si registrano i numeri maggiori è il Lazio dove operano oltre 600 preti stranieri: uno ogni quattro italiani. Seguono Toscana, Emilia-Romagna, Campania, Abruzzo-Molise. Una mappa Roma-centrica. Il Centro Italia raccoglie oltre metà del clero immigrato. Le presenze si diradano più ci si allontana dalla capitale della cristianità. Le città sul podio con Roma (dove operano oltre metà dei sacerdoti stranieri del Lazio) sono Firenze e Milano. Questa è la fotografia del fenomeno. L'Italia attrae non soltanto profughi ma anche preti. Non approdano con i barconi ma per motivi di studio e per periodi limitati qualche anno secondo progetti concordati tra le diocesi di partenza e di arrivo. Sono i sacerdoti «fidei donum», così chiamati dal titolo di un'enciclica di Pio XII del 1957 («Il dono della fede») che invitava all'impegno missionario: non appartenenti a ordini religiosi che per vocazione vanno a evangelizzare le terre lontane, ma preti o diaconi «in prestito», cioè inviati temporaneamente in diocesi straniere in base ad accordi sottoscritti tra i due vescovi. Le convenzioni prevedono un soggiorno massimo di 9 anni prorogabili di altri tre. Poi i sacerdoti senza frontiere dovrebbero rifare la valigia.
Succede però che il periodo si prolunghi indefinitamente. Annarita Turi, che lavora all'ufficio Cei preposto alle convenzioni stipulate tra diocesi italiane e straniere, ha scandagliato la situazione sul mensile Popoli e missione. Questi scambi rappresentano «un'enorme ricchezza culturale e spirituale», «un dono della fede delle Chiese sparse nel mondo» a conferma che «la missione è sempre più intesa come reciprocità» e che l'Italia stessa è diventata terra di missione. I preti sono sempre meno, sempre più vecchi ed è sempre più difficile sostituire chi muore o va in pensione (a 75 anni gli ecclesiastici si devono dimettere da ogni incarico). La Chiesa che apre porte e braccia agli stranieri lo fa a maggior ragione con i sacerdoti senza frontiere. Una particolare forma di immigrazione che Franco Pittau, presidente del Centro studi e ricerche Idos, ha definito «forza lavoro supplementare di natura pastorale».
ANDATA SENZA RITORNO
I motivi per cui si arriva in Italia sono vari: conoscenza diretta con i vescovi italiani, richieste di «personale» in qualche diocesi, gemellaggi missionari, internazionalizzazione degli istituti religiosi. «Alla base c'è il desiderio di acquisire nuova esperienza pastorale da offrire poi alla propria Chiesa», spiega don Michele Autuoro, direttore dell'Ufficio nazionale della Cei per la cooperazione missionaria tra le Chiese. «Dobbiamo stare attenti a non impoverire le Chiese giovani». Ma tra le cause dell'emigrazione in tonaca, rileva Annarita Turi, non mancano «le emergenze dovute alla situazione interna dei Paesi di provenienza»: è lo stesso meccanismo che induce schiere di disperati a mettersi nelle mani dei trafficanti d'uomini che gestiscono le tratte nel Mediterraneo. Fuggire da miseria e morte per cercare un presente e un futuro migliori: «Un'idea di emancipazione individuale e sociale più forte rispetto alla motivazione missionaria, che riguarda non solo il singolo sacerdote ma tutta la Chiesa locale di origine».
Questa migrazione in certi casi «non risponde a criteri di cooperazione e di ecclesialità», e in aggiunta può avere «l'aggravante della gratificazione economica o dell'accomodamento personale». Annalisa Turi auspica «un po' più di fermezza e di rigore nell'operare alcune scelte da parte delle diocesi». Il sistema delle convenzioni, deciso per tutta la Chiesa dalla congregazione vaticana di Propaganda Fide nel 2001, dovrebbe regolare l'afflusso di preti dall'estero in un quadro di reciprocità per evitare scelte autonome. Ma per il periodico missionario della Cei «non mancano casi in cui i vescovi, più che inviare o accogliere, cedono all'insistenza di un sacerdote diocesano desideroso di lasciare il Paese d'origine o di sistemarsi in Italia».
«Si rimane da noi anche perché non è più possibile rientrare», spiega padre Giulio Albanese, missionario comboniano e direttore di Popoli e missione. «Molti preti venuti temporaneamente dal Congo, per esempio, non hanno potuto tornare». Quello che doveva essere uno scambio, una sorta di «stage», si trasforma in una scelta di vita per ragioni obbligate. «Dopo tanti anni un prete può fare fatica a rientrare nel luogo di origine aggiunge don Autuoro -. Le condizioni sono cambiate ed egli stesso dovrebbe riadattarsi alla propria patria. L'Occidente resta comunque un contesto migliore. Ma non c'è solo questo: anche parecchi fidei donum italiani partiti anni fa per il Terzo mondo preferiscono restare laggiù, nella loro nuova terra. Hanno fatto corpo unico con le popolazioni locali. È un aspetto umano da non sottovalutare».
VOCAZIONI AL SUD
In ogni caso, in Italia per un prete c'è tantissimo da fare. «Senza dubbio ammette padre Giulio Albanese -. In talune diocesi un solo sacerdote può avere anche quattro o cinque parrocchie da seguire». Succede agli stessi preti stranieri: nella diocesi di Firenze, per esempio, seconda in Italia per numero di sacerdoti d'importazione, alcuni di essi seguono due o tre parrocchie come amministratori o collaboratori nel circondario del capoluogo o di Empoli. Sempre a Firenze il cardinale Giuseppe Betori ha inserito tra i cinque vicari un prete polacco parroco di San Giovanni Evangelista a Empoli, monsignor Wieslaw Olfier: è moderatore della Curia e coordinatore degli uffici. Bisogna dunque prepararsi a vedere sempre più preti slavi, africani, asiatici o latinoamericani. «All'Italia servono più sacerdoti riconosce don Autuoro -.
Ci sono tante strutture pastorali esigenti». L'aiuto da fuori è indispensabile. E comunque la tendenza per gli anni a venire è chiara: «Il grosso delle vocazioni verrà dal Sud del mondo piuttosto che dalla vecchia Europa».
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