Non aggiungerò la mia voce al coro dei lamenti prodiani e degli italici europeisti immaginari per le conclusioni del vertice di Bruxelles, dove si sono poste le basi per un nuovo trattato dell'Unione che sostituisca quello avventatamente denominato «Costituzione», circa due anni fa impallinato nelle urne dagli elettori di Francia e Olanda. Partiamo dai fatti. L'Europa oggi è un mastodonte di ventisette Stati, nei quali l'alternanza dei governi è sempre più frequente, circostanza che mette in dubbio, tra l'altro, la continuità delle politiche estere. Al livello delle opinioni pubbliche, si è consolidata una frattura tra la vecchia Europa e quella che ha raggiunto l'Unione solo dopo la caduta del muro. Nella prima sono ancora attive le velleità di essere contrappeso agli Stati Uniti all'interno di un Occidente plurale. Nella seconda la collaborazione con l'America è vista come una garanzia irrinunciabile contro gli incubi del passato.
Queste due facce dell'Europa così diverse, vengono a coincidere solo a scadenza quadriennale, quando i tassi d'astensionismo alle elezioni per il rinnovo del Parlamento di Strasburgo scendono a nord così come a sud, a ovest come a est. Negli ultimi quattro anni l'Europa ha inoltre attraversato continue crisi: dalla drammatica scissione in occasione dell'intervento in Irak alla incapacità di trovare un accordo su comuni presupposti identitari; dalla bocciatura del trattato fino al difficile compromesso, raggiunto quando l'acqua era già alla gola, per l'approvazione del bilancio interno.
Al cospetto di questo scenario, serviva una ripartenza che considerasse pragmaticamente tale realtà. Quest'atto di consapevole realismo c'è stato. A me non sembra negativo che il valore giuridico della carta dei diritti approvata a Nizza venga finalmente precisato e che la stessa sia espunta dal futuro trattato. Quel documento, infatti, non solo è scritto alla luce di un'ideologia post-socialista ritenuta superata persino da un moderno socialdemocratico come Tony Blair. Esso presuppone anche un'idea della cittadinanza europea fondata sulla produzione e la esigibilità di nuovi diritti, anziché sul rispetto di una storia comune e delle specificità dei differenti Stati nazione. Rappresenta, in sostanza, l'alternativa al riconoscimento delle comuni radici giudaico-cristiane e sintetizza in sé le ragioni per le quali quel riferimento fu espulso dalla Costituzione.
Non casualmente, nel momento nel quale ci si accorda per delimitarne il significato, anche altre pericolose finzioni vengono a cadere. Io non verserò una sola lacrima perché il previsto ministro degli Esteri è stato degradato ad Alto Rappresentante. Mi sembra una doverosa concessione alla realtà. Perché una politica estera più unitaria, senz'altro auspicabile, la si potrà conquistare a piccoli passi se si prenderà atto che essa, nella situazione odierna, latita. Ancor più mi ha fatto piacere il rafforzamento del ruolo dei Parlamenti nazionali e, soprattutto, la possibilità concessa agli Stati di tirarsi fuori da decisioni comuni in materie quali la giustizia e la polizia. Qui si tocca la radice del problema. Perché si è corso il rischio che decisioni fondamentali per la libertà dei cittadini vengano assunte in sede europea da organismi in alcun modo legittimati dalla sovranità popolare. E anche di recente, quando queste decisioni hanno messo in discussione i diritti fondamentali riconosciuti negli Stati membri, persino le Corti Costituzionali si sono trovate impotenti nel loro compito di difenderli. Scivolando lungo questa deriva, la democrazia nella sua accezione classica avrebbe conosciuto un triste autunno. L'ultimo vertice, ci fa quantomeno intravedere un'uscita di sicurezza.
Lo stesso realismo che si è fin qui rivendicato, induceva a sperare che il nuovo sistema di votazione, che evitando il diritto di veto evita anche la paralisi, potesse entrare in vigore prima del 2017. Ma tant'è: non si può avere tutto.
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