Bush: «Anche Obama rischia un 11 settembre» Il presidente uscente: «La minaccia maggiore per gli Stati Uniti è un attacco terroristico». Su Barack: «Non avrei mai pensato di vedere un nero alla Casa Bianca». Il futuro? «Da mercoledì porterò il c

WashingtonNon c’è forse occasione più malinconica, per un leader politico, di quel rito che si chiama «ultima conferenza stampa». Particolarmente in America, dove l’attenzione è maggiore per i gesti cerimoniali. L’addio più amaro fu quello di Richard Nixon: «Non avrete più un Nixon da prendere a calci, perché questa è la mia ultima conferenza stampa». Non andò così: quelle parole sono del 1962 e le dimissioni causate dallo scandalo Watergate vennero soltanto dodici anni dopo. Gli altri addii sono stati più o meno sereni, almeno nella forma. E non ha fatto eccezione quello di George W. Bush, che per l’ultima volta, appunto, ha parlato da presidente in attesa di lasciare la poltrona, gli onori e la responsabilità a Barack Obama. Dopo otto anni così travagliati e spesso avvelenati ci sarebbe stato da attendersi un commiato più amaro o almeno più polemico; Bush non è stato «bombardato» meno di Nixon dai critici, e in più gli è toccato di guidare l’America negli anni più difficili dal secondo dopoguerra. Otto anni che in pratica sono cominciati con il crollo delle Torri Gemelle a Manhattan e sono finiti con il crollo dell’economia.
Ma Bush si è mostrato sereno, ha dedicato più parole al futuro che al passato ed è anzi riuscito a collegare passato e futuro a proposito del tema che gli sta più a cuore (la guerra al terrore) e del merito che egli rivendica tenacemente e comprensibilmente: dopo l’11 settembre 2001 non si è più verificato un attacco contro gli Stati Uniti su suolo americano. «Ma la minaccia permane, è la cosa più urgente e dovrà affrontarla Obama e i presidenti che verranno dopo di lui. C’è ancora là fuori un nemico che ci vuol fare del male». Tutto il resto passa in secondo piano, perfino il tracollo finanziario e le sue conseguenze che si amplificano di giorno in giorno. Bush lo ha riconosciuto ma ha comprensibilmente buttato sul fuoco della paura qualche goccia di speranza. Il peggio potrebbe essere passato, «i differenziali sul credito si stanno restringendo, i prestiti sono in ripresa. E credo che le misure prese dall’amministrazione aiutino lo scongelamento del mercato, che è il primo passo verso la ripresa».
Il presidente che se ne va non ha mostrato altrettanto orgoglio nel tentare un bilancio della sua politica estera: ha ribadito di non aver sbagliato a identificare immediatamente le dimensioni del terrore e la necessità di affrontarlo, ma ha ammesso alcuni errori. Il più grave, secondo lui, è stato di aver proclamato in un discorso su una portaerei la vittoria nella guerra in Irak avendo alle spalle lo striscione con la scritta «Missione compiuta». Era il 2003, la situazione è migliorata ma Bush ha ammesso di non poter «promettere che in Irak la democrazia riuscirà a sopravvivere alle tensioni di matrice interconfessionale». Un «abbaglio» è stato, quello sulla presenza sul suolo iracheno di «armi di distruzione di massa» che non c’erano, un altro «gli abusi sui prigionieri nel carcere di Abu Ghraib» (però Bush non ha nominato Guantanamo). Bush non rimpiange di aver compilato la lista dei Paesi membri dell’Asse del Male (pur senza riprendere tale formula) ed ha ribadito il pericolo che presenta l’Iran e, nonostante gli accordi raggiunti, anche la Corea del Nord. Quanto al Medio Oriente Bush ha riaffermato la sua solidarietà a Israele «che ha il diritto di difendersi» ma anche messo in guardia lo Stato ebraico «dal rischio che le azioni militari creino vittime civili». La strada maestra, secondo Bush, è «collaborare con l’Egitto per bloccare l’ingresso illecito di armi a Gaza in modo da isolare i Paesi che sostengono Hamas». Il nemico resta naturalmente Al Qaida «assieme a tutti i gruppi estremisti che usano la violenza per impedire la nascita di Stati indipendenti e democratici». Un ultimo rimpianto: gli errori commessi nella gestione dell’emergenza dell’uragano Katrina che ha «affogato» New Orleans.
E adesso Obama. In primo luogo tanti auguri e poi l’orgoglio per un’America che ha superato i pregiudizi razziali. «Non avrei mai pensato di vedere un giorno un presidente nero alla Casa Bianca» con cui Bush ha avviato in queste settimane una buona collaborazione, soprattutto di fronte all’emergenza economica. Proprio ieri se ne è avuta una nuova conferma, quando il presidente-eletto, che teme che il Congresso non approvi in tempo un «pacchetto» di emergenza di 350 miliardi di dollari, si è rivolto pubblicamente al presidente uscente pregandolo di occuparsene lui finché ne ha il potere; e Bush l’ha ascoltato e gli ha dato volentieri una mano chiededno al Congresso i soldi.

Così, nonostante le urgenze, un presidente battagliero e contestato come pochi (il più impopolare della storia) è riuscito a dare un addio sereno a una stampa in gran parte ostile, con qualche battuta scherzosa e una «primizia» sulle sue intenzioni per il futuro fuori dalla Casa Bianca. «È difficile prevedere che cosa proverò perché sarà l’inizio di una vita nuova. L’unica cosa sicura è che mercoledì comincerò la giornata portando il caffè a Laura».

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