BUSI Un moralista di cattive maniere

Un titolo (inutilmente) provocatorio, una carica satirica degna di Giovenale, un’indignazione schifata di fronte al piatto e soffocante perbenismo borghese

Come tutti i grandi satirici di ogni tempo, a cominciare da Giovenale fino a Jonathan Swift e magari anche al nostro eccelso Giuseppe Gioacchino Belli, anche Aldo Busi - incorreggibile e inarrestabile satirico oltre che scrittore di rango - ha alle spalle una solida tempra di moralista. Il suo turpiloquio e le sue ostensioni di vari congiungimenti sessuali, non sono altro che le metafore, anche realisticamente fondate, delle turpitudini segrete e libidini inconfessabili dell’intera umanità, represse da micidiali tabù metafisici, e soprattutto del soffocante perbenismo delle buone maniera borghesi.
Il latino Giovenale nutriva la propria indignatio contro la «decadenza» dei costumi medio-imperiali con il sostegno di un abrasivo rimpianto dell’arcaica e rude società contadina misoneista e catoniana. Busi non ha neanche questo sostegno: il suo superomistico ma sacrosanto disprezzo per tutto ciò che sia piattamente omologato rasoterra, è non solo a sua volta codificato, ma anche esplicitamente enunciato nelle prime pagine del suo nuovo libro (romanzo? reportage?), che trova ragion d’essere nella trasfigurazione artistica, e prima ancora linguistica, e dunque in una sublimazione alla rovescia, cioè in una tragicomica immondizia umana, perfetto argomento di satira, appunto, e riscattabile soltanto da una pietà che non sia divenuta istituzionale, cioè praticata da iniziative e conventicole filantropiche, e invece sentita individualmente da chi non abbia perduto la propria capacità di emozionarsi al cospetto di una disarmata e ingenua condizione di sventura.
Ma per ciò occorre un’energia di lottatori: Bisogna avere i coglioni per prenderlo nel culo, titola Aldo Busi, il suo nuovo libro (Mondadori, pagg. 308, euro 17.50), esprimendo scandalosamente (ma ut scandala eveniant scrive Matteo nel suo Vangelo) la necessità d’una grande forza morale necessaria anche per essere gioiosamente omosessuali. Ed ecco una dichiarazione programmatica dell’autore: «io per amante voglio... volevo... un lottatore a vita; se è come me, deve avere la stoffa del lottatore infinito, la capacità di lottare anche quando dorme a occhi aperti o guarda a occhi socchiusi, un lottatore così scafato contro ogni mitologia dell’ego e ogni fanatismo della speranza... un lottatore vinto quanto indomito perché sa che le cause più belle, cui dare la propria linfa vitale perché si rinnovi e si ritrovi, sono quelle vinte al contrario, cause invincibili che restano vinte nel tempo; meglio ergersi su una propria causa persa da perdere in continuazione che appoggiarsi alla causa vinta altrui da continuare a far vincere per conto terzi» (pag. 11).
Ma si aggiunga, altro totem, non tanto «una figura materna», bensì la vecchia madre in carne e ossa, senza tenerezze castranti e invece - figura dantesca da «fuso e pennecchio» -, rude anch’essa, ma indotta a chiedere il sostegno di alcuno.
Di questo testo, forse il più impegnativo di Busi (e mi dispiace per i critici che si servono dell’esporre la vicenda dei libri per fabbricare una recensione), è impossibile raccontare la trama perché trama non c’è: si tratta invece di una lunga trafila di stazioni d’un calvario e d’una ascesi personale che si accompagnano a una irredimibile catabasi collettiva per esprimere la quale occorrerebbe un altro libro, un nuovo giro del mondo in più o meno degli ottanta giorni verniani canonici del peregrinare turistico-sessuale di cui i momenti poeticamente più validi sono costellati da ritratti fulminanti di un’amara comicità. Ma chi vuole trovare un’altra codificazione della persino manichea e giansenistica moralità busiana, non ha che leggere il vero (vero?) resoconto di un dialogo Busi-Scalfari sulla corruzione esercitata dalla pubblicità del «nemico» pubblicata su giornali e supplementi «amici» (pagg. 39-48). In conclusione, il fascino non troppo segreto di questa ritrovata vena narrativa di Busi, è la travolgente ma mai incontrollata irruenza del discorso ininterrotto, delle improvvise accensioni affabulatorie e, più spesso, nei ripiegamenti sfiniti dalla propria stessa vitalità (o vitalismo che sarebbe peggio).


Al termine del volume Busi ci dà una propria completa bibliografia in cui appaiono anche testi superflui, e ci informa della sua direzione della collana «Classici classici» per le edizioni Frassinelli. Bene, gli consiglierei di fare una nuova edizione del Satyricon petroniano: quella di alcuni anni fa è piattamente banale e piena di soluzioni castranti (e se vuole, potrei indicargliele).

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