«C’era un ragazzo col mito di Milano»

O tto otto tre oggi è ciò che è sempre stato: il modello di una moto. Meglio, di una Harley Davidson. Cioè «la» moto. Quella di Easy rider, quella che solcava la route 66. Quella che era il simbolo della libertà, quella che metteva le ali anche al pensiero, quella che sono soltanto le due di notte, oh yes. Lui una volta le sognava a occhi aperti con il naso schiacciato contro la vetrina del concessionario. Ora il concessionario è lui e lui le vende. Lui, come Jack Frusciante, è uscito dal gruppo. Lui si chiama Massimo, ma nessuno lo conosce per nome e tutti con il nomignolo: Max, destino comune a tanti Massimi. Lui non ha mai smesso di cantare, si è aggrappato all’Uomo Ragno, è diventato un mito e si è ritrovato in sella al successo e alla Harley Davidson. 883, naturalmente. In principio erano gli 883, oggi è solo Max Pezzali, gli altri 882 in realtà erano solo un altro compagno di viaggio. Si è perso per strada, capita.
Eppure l’aveva trovato nel banco di fianco, terza liceo, una mattina di ottobre e una bocciatura di troppo. Era la vita dei ragazzi degli anni Ottanta, «quelli che lo status quo che nella misura in cui che nell’ottica, oh yes». Quelli che da Pavia venivano a Milano a fare le vasche. Su è giù per via Torino a «rimiragh il sedes di tôsann che el porten a bôttega» scriveva il Porta duecento anni prima. Due secoli e non era cambiato nulla: tutti sempre dietro a un paio di chiappe della solita tipa da sballo che fa passerella in centro. Non era ancora la ballerina del celebrità, ma poco mancava. «Pavia era l’hinterland, Milano il traguardo. Al sabato eravamo tutti lì. Era un modo per essere alla moda, fare tendenza. Se non puntavi al centro rischiavi di restare in periferia per sempre. E Milano era lì, a portata di mano: due caselli e 12 minuti alla barriera di Assago. Mezz’oretta da casa ed era fatta».
E da pavesi come vedevate i milanesi?
«Amore-odio. Noi, vecchi imperiali che non avevamo aderito alla Lega lombarda per essere la capitale dell’impero... Addio tutto! Sorpassati e polverizzati. E poi non sopportavamo l’indole bauscia; noi così chiusi e diffidenti verso ciò che arrivava da fuori».
E oggi?
«Oggi la leadership milanese l’hanno digerita anche gli... imperiali. Pavia è diventata la periferia di Milano. Una grande conurbazione. Milano ha un’immensa capacità di rinnovarsi, ma riesce sempre a mettermi un pizzico di paura. Anche adesso che vivo a Roma, ma torno spesso».
E da... «romano» come vede la Madonnina?
«Il progresso. Roma è bellissima, aperta, socievole, ma ha tempi dilatati, soffre l’establishment ministeriale e soprattutto deve sprovincializzarsi».
Fai un esempio.
«Il calcio. Radio e tv parlano solo di Roma e Lazio e delle manie di persecuzione verso le milanesi. Vedono complotti ovunque, scavano nella dietrologia ma il Potere vero è lì...».
A proposito di calcio, che senso ha lo sport?
«Lo sport è l’Inter. San Siro nerazzurra. Grazie di cuore a Mancini, paga le frasi di Liverpool. Ma Mourinho è un intenditore!».
È già un mito, insomma. Che cos’è un mito?
«Il mito è il grande sognatore. È chi è capace di immaginare quel che avverrà. Oggi rinnovare è impossibile: tutti hanno fatto tutto mille volte. Anche alla scienza serve un po’ di follia. Ma un mito è ognuno di noi quando riesce a realizzare un sogno, a non piangersi addosso, a fissare un traguardo e raggiungerlo. Allora sei un mito anche tu».
Hai un tatuaggio di Honolulu: è un mito o è Nord Sud Ovest Est?
«È tutto. È la frontiera di Hugo Pratt, è la meta lontanissima, è il punto di incontro tra Oriente, Occidente e Polinesia. È la terra del mistero e del sogno, è l’isola che sembra a portata di mano, ma è sperduta nel Pacifico, eppure ha tutto».
Che cos’è il mistero?
«È quel che ci fa vivere. Sapere troppo è un male. Amare una persona significa conoscerla poco per volta. Scoprire i suoi segreti piano piano. Il trucco è il fascino del prestigiatore, svelarlo è uccidere la curiosità».
Hai scritto un romanzo, «Per prendersi una vita» (Baldini e Castoldi Dalai, pp. 219, 16 euro), cosa c’è di misterioso?
«Il delitto. Per il resto ci sono le vite di quattro amici in viaggio a Londra, sulle orme del loro mito musicale, cercando di scardinare il loro provincialismo. Quei quattro potevamo essere noi, ragazzi degli anni '80, che rincorrevamo la Milano da bere, tra modelle e discoteche. Quando Milano era un faro».
«C’era un ragazzo che come me...». C’era un ragazzo che come te: eravate in due all’inizio.
«Oggi Mauro vive a Parigi, ha sposato una ragazza di colore, francese, che è designer d’interni e hanno due figli. Lui lavora a Eurodisney, organizzatore di eventi; se sono aggiornato. Ha lasciato la musica, non era la sua strada. Mauro è un grandissimo stratega, mi ha aiutato moltissimo a scrivere tanti testi di successo. È lui che ha portato gli 883 da Cecchetto. È stato un mito. Ma nei concerti era spiazzato. Così ha mollato».
«Amava i Beatles e i Rolling Stones»: chi scegli?
«Stavo con gli Stones. I Beatles mi sembravano ragazzotti perbene che cantavano canzonette. Poi ho capito che erano loro l’inizio di tutta la musica moderna: Helter skelter è l’atto di nascita dell’hard rock, è più attuale dei Nirvana».
«Cantava Help o Ticket to ride, o Lady Jane o Yesterday»: a quale canzone sei più affezionato?
«Back in the Ussr. Erano anni pesanti, allora. Era l’Ussr della Guerra fredda. Ma sono legato anche a Start me up. Era l’82, Mick Jagger aveva sulle spalle il 9 di Paolo Rossi, la intonò sul palco di un concerto italiano, calciando il pallone verso il cielo. Avevamo vinto i Mondiali, nelle orecchie c’era ancora Martellini: campioni del mondo, campioni del mondo, campioni del mondo. Tre volte, come i fischi dell’arbitro mentre l’Italia esultava...».
«Cantava viva la libertà...»: cos’è la libertà?
«È poter fare quello che piace davvero. La libertà è la massima felicità possibile».
«... ma ricevette una lettera»: cosa significa ricevere una lettera?
«Non si ricevono più lettere. Nella casella della posta arrivano solo multe e tasse. Mio nonno ripeteva: “Se lo Stato si fa vivo vuole soldi”. Invece sarebbe bello ricevere una cartolina, ma nessuno le manda più».
«M’han detto va nel Vietnam e spara ai Vietcong...»: che sapore ha la guerra?
«Quella degli eserciti non esiste più: è stata sostituita da quella economica. Non si conquistano più territori ma pacchetti azionari. Poi c’è la guerra dei poveri, la nostra, ogni giorno, la guerra dei nervi: l’immigrato che vuole un posto al sole, chi teme l’assalto del nuovo venuto, i vecchi temono i giovani rampanti, i giovani temono i vecchi, i commercianti temono i mega-store. I nostalgici temono internet».
Che rapporto hai con la tecnologia?
«Ha cambiato in meglio la nostra vita, ma ricordo come si viveva senza. Occorre dominarla, non farsi dominare. La tecnologia è subliminale: crea finti bisogni».
«Adesso è morto nel Vietnam».

Cosa rappresenta la sconfitta: una base per ripartire o la fine?
«La sconfitta è utile come la vittoria: è la vita, un’alternanza continua. Perdere è un modo per non sentirci invincibili, serve a capire che si va avanti col duro lavoro. Senza sconfitte oggi, non ci saranno vittorie domani».

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