C’era una volta quel ragazzo di Kiev allenato dal colonnello Lobanowski

Dopo la conquista della Champions, andò sulla tomba del suo scopritore per dedicargli il trofeo. Negli ultimi tempi, però, troppi impegni e distrazioni

Franco Ordine

A 15 anni si innamorò perdutamente del gol. Poi fu il gol a invaghirsi di Andriy Shevchenko da Kiev e da allora i due non si lasciarono più. Dove passava Sheva, vestito d’azzurro con la Dinamo oppure di rossonero con il Milan, era possibile trovare traccia di gol di ogni fattura e pregio, di destro e di sinistro, in volo angelico o d’astuzia, tirando sassate da distanze chilometriche o firmando imprese balistiche in spazi ridotti fino a raggiungere cifre industriali, 173 in sette anni indimenticabili con la maglia del Milan. Scavalcate in sequenza alcune leggende della real casa, inseguiva una montagna altissima, Nordahl, col suo record d’altri tempi. Ieri ha annunciato al mondo che continuerà a coltivare la sua passione da un’altra parte, a Londra. Quel ragazzo di Kiev, sfuggito miracolosamente al disastro di Cernobil, e che a 15 anni, passando dinanzi a San Siro aveva sognato il suo futuro trovandolo magicamente, si era anche innamorato al volo del Milan e di Milano, «la mia famiglia» disse poche settimane dopo il trasloco a Carnago, e di un calcio unico, un po’ retrò forse, spartano, fatto di sacrifici e di rinunce, di tripli allenamenti al giorno e di corse nella neve. Il suo precettore, il colonnello Lobanowski, lo educò allo sport prima che al calcio, al gioco dedicato alla squadra prima che a inseguire il proprio egoismo. E Shevchenko, grato al maestro, andò sulla tomba, con la coppa dei Campioni in pugno per dedicargli quel trofeo inseguito per molti anni prima di raggiungerlo nella notte di Manchester.
«Quel rigore mi ha cambiato la vita» confessò Sheva al ritorno dall’Old Trafford, maggio 2003. Il ragazzo di Kiev era cresciuto nel frattempo, innamorato follemente del gol, ma anche di una modella americana, Kristel, incontrata in una delle tante serate della Milano modaiola. Poi arrivò lo scudetto e il figlio Jordan, l’amicizia con Giorgio Armani, e la fascia da capitano ereditata per il lungo, tormentato infortunio di Paolo Maldini. Giusto all’altezza di quelle settimane, piene di trionfi e di gol, di infortuni carogna e di guarigioni velocissime, Shevchenko, il ragazzo di Kiev cominciò lentamente a cambiare, a smarrire la vecchia strada per andare incontro alla popolarità che sa ammaliare e distrarre. Vinse il Pallone d’Oro e divenne un testimonial della pubblicità ma soprattutto cominciò ad ascoltare le sirene di Abramovich, proposte suggestive, contratti da mille e una notte. Il Milan e Silvio Berlusconi riuscirono a resistere facilmente alla tentazione del denaro, dissero no al Real Madrid (140 miliardi poi investiti su Zidane) e poi al Chelsea, Shevchenko cominciò a barcollare come raccontarono procuratori e agenti, scatenati dall’appetito di un affare gigantesco.
Appena il ragazzo di Kiev divenne un borghese del calcio, i suoi gol non garantirono a Istanbul e a Barcellona altri trofei, appena s’incrinarono i rapporti coi sodali, considerati fratelli maggiori, Sheva si innamorò di Londra, dei tanti soldi di Abramovich e dei progetti della moglie Kristel.

Al Milan mancheranno i suoi gol, è garantito. Ma una squadra che è riuscita a sopravvivere a Rivera e a Van Basten, potrà resistere alla sua partenza, disse una settimana fa Ancelotti. È Sheva che ha chiuso con quel ragazzo di Kiev, purtroppo.

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