“60 anni? No, 6 volte lasciare la Nazionale. Una scelta sbagliata, ho un conto in sospeso: sogno di tornare per vincere i Mondiali”

L’ex Ct si racconta e parla per la prima volta dell’addio all’azzurro: “Non lo rifarei e gestirei tutto diversamente. I soldi arabi? Hanno pesato. Alla Roma ci sarei andato. Senza Vialli, Eriksson e Mihajlovic ho il deserto nel cuore”

“60 anni? No, 6 volte lasciare la Nazionale. Una scelta sbagliata, ho un conto in sospeso: sogno di tornare per vincere i Mondiali”

Tredici settembre 1981. Domenica pomeriggio. Tarcisio Burgnich, l’ex mitico terzino della Nazionale, è allenatore del Bologna. In panchina vicino a lui c’è un ragazzino di neanche 17 anni che si chiama Roberto Mancini. Burgnich gli sussurra: «Roberto, tocca a te, scendi in campo». Quel giorno nasce il mito che oggi compie sessant’anni. Ma cominciamo dall’inizio. Com’era Mancini da bambino? «Abbastanza “munello”, come si dice nelle Marche. Pare che non stessi fermo un attimo». La sua famiglia? «Mamma infermiera, papà falegname e una sorella di due anni più piccola di me. Nato e cresciuto a Jesi». Le piaceva la scuola? «Poco. Mi piaceva alle elementari perché avevo una maestra che mi voleva bene, era molto affettuosa. Aveva consigliato ai miei genitori di darmi una tazza di camomilla prima di andare in classe perché non stavo mai fermo». E la mamma gliela dava? «Tutte le mattine». Quando entra il pallone nella sua vita? «Sono nato col pallone! Già a 4 o 5 anni stavo in fissa...». A suo padre piaceva il calcio? «È sempre stato appassionato. Tifoso juventino, per hobby ha fatto il dirigente nella Polisportiva Aurora Jesi nella parrocchia di San Sebastiano, sotto casa». Dove giocava da piccolo? «Casa, scuola e parrocchia erano nel giro di 100 metri. La mia vita era quella: andavo a piedi a scuola, poi nell’ora di ricreazione giocavamo a pallone, perché c’era un prato, poi tornavo a casa, e dopo pranzo scendevo in parrocchia e giocavo ancora». Con chi? «Spesso anche solo. Tiravo sul muro e giocavo sul rimbalzo: di piedi, di testa...». Nasce così il Mancini numero 10?

«Nasce così: a tirare la palla contro il muretto dai quattro ai sette anni. Poi sono arrivate le partitelle con gli altri in parrocchia».

Sua madre che diceva?

«“Roberto, hai fatto i compiti?”. Io raccontavo di averli fatti e scendevo in parrocchia a giocare».

Lei ha studiato fino alla terza media. Le dispiace non essere andato avanti con gli studi?

«Molto, è un grande rimpianto».

Perché ha smesso?

«Mi aveva chiamato il Bologna».

Ricorda il primo provino?

«È andata così: mia madre doveva andare a Bologna dal dentista, e mio padre, di nascosto da mia madre, tramite un nostro amico, aveva saputo che c’erano questi provini con il Bologna calcio. E allora si era inventato una scusa per portare anche me a Bologna. Abbiamo lasciato mia madre dal dentista e noi siamo andati a Casteldebole, che è il centro sportivo».

E lì ha fatto il provino?

«Sì. Una partita 11 contro 11. Alla fine del primo tempo mi fecero uscire e non mi fecero più giocare. Pensai che mi avessero scartato e che non ero all’altezza. Era andata male. Ero molto triste».

Invece?

«Invece mi avevano tolto per nascondermi. Non volevano che gli osservatori di altre squadre mi vedessero. Il provino era andato benissimo, avevano deciso di prendermi dopo neanche mezz’ora di gioco. Però tornammo a casa rassegnati, senza dire niente a mamma».

E poi?

«Dopo un mese arrivò la telefonata: “Preparate le valigie a Roberto perché deve trasferirsi a Bologna”».

Cosa provò?

«Una felicità che non dimenticherò mai».

Come è stato per lei il distacco dalla famiglia così piccolo?

«Sicuramente un trauma, soprattutto il primo anno fu veramente duro: ero lontano da casa, si telefonava dal telefono a gettone ed era complicato».

Dove viveva?

«Vivevamo in 20 in un convitto. Quando chiamavo casa piangevo. Le distanze non erano come oggi: Bologna-Jesi con il treno era veramente lunga».

Non tornava mai a casa?

«Ogni 15 giorni più o meno, sennò mi venivano a trovare loro, mamma, papà e mia sorella, ma con la macchina ci volevano almeno 4 ore».

In quale categoria giocava a Bologna?

«Nei giovanissimi a 14 anni. Ricordo che eravamo in tre nella nostra squadra che giocavamo meglio degli altri».

Lei era il più bravo?

«Uno era molto meglio di me, si chiamava Marco Macina».

Ricorda l’esordio in serie A?

«Bologna-Cagliari. Avevo 16 anni e nove mesi».

Primo gol?

«Alla quarta di campionato, Bologna-Como 2-2, ancora non avevo 17 anni. Arriva una palla filtrante: esce il portiere, che mi pare fosse Giuliani, e io mi trovo faccia a faccia con lui. Decido di tentare il numero. Faccio il pallonetto. E vedo la palla che scavalca Giuliani, e poi seguo la traiettoria e la vedo entrare in porta e gonfiare la rete...».

Si emozionò?

«Beh, lei che dice?».

Fu un gol importante?

«Salvò la panchina a Burgnich, perché era in pericolo di esonero».

Dopo quel gol diventò titolare?

«Sì, titolare, e alla fine del campionato feci nove gol. Nove gol negli anni in cui il capocannoniere ne faceva 15. Eravamo in tre suppergiù di quell’età che giocavamo in serie A, non esistevano giocatori così giovani».

Ricorda la sensazione dei primi veri guadagni con il calcio?

«Devo essere sincero, io sono arrivato a Bologna e dopo il primo mese mi chiamano e mi danno 40.000 lire. Ricordo che io chiesi: “Perché mi date 40.000 lire?”. Loro mi risposero che era un rimborso spese. Io dissi: “Ma perché, ci pagate per giocare a pallone?”. Era il 1978. Non riuscivo a capire perché mi pagassero per divertirmi».

Ma a Bologna non andava a scuola?

«Noi avevamo un economo che chiamavamo “il mago”, e lui ci accompagnava a scuola, o meglio ci portava al capolinea dell’autobus, il 42. Io venivo da Jesi, ero un po’ vergognoso, molto timido. Non parlavo bene, e in una città così grande non mi sentivo adatto».

E quindi cosa faceva?

«Ho avuto un po’ di timore e non sono andato a scuola il primo giorno. Mi sono fermato ai giardinetti, mi sono seduto su una panchina e ho cominciato a leggere Lo Stadio, che era il quotidiano sportivo di Bologna. All’improvviso sentii arrivare uno schiaffo. Ma forte, eh...».

Chi era?

«Era “il mago”, che mi prese per un orecchio e mi portò in classe».

Poi arrivò alla Sampdoria, che è stata buona parte della sua vita calcistica.

«Sono rimasto 15 anni. Abbiamo raggiunto tutti i record possibili e immaginabili con la Samp, quando giocavo io. È stata la mia vita».

Mantovani?

«Un presidente meraviglioso. Mise su una squadra incredibile: eravamo uniti, vivevamo tutti per la maglia. Abbiamo vinto uno scudetto, siamo arrivati in finale di Coppa Campioni, 15 anni di vita stupenda. Non posso non citare il direttore sportivo Paolo Borea che dal Bologna mi ha portato a Genova».

Genova è anche la città dove sono nati i suoi figli.

«Sì, Filippo, Andrea e Camilla. E dove è nata la mia straordinaria e indissolubile amicizia con Gianluca Vialli».

Poi dopo cosa accadde?

«Nel 1993, con la morte di Mantovani, finì un’epoca. Rimasi altri quattro anni e poi andai alla Lazio».

Insieme ad Eriksson?

«Sì, il presidente della Lazio era Cragnotti e io andai con Eriksson, che era allenatore della Samp e passò alla Lazio. Anche lì furono tre anni importanti da giocatore. Sette trofei. Dopo aver vinto lo scudetto e la Coppa Italia ho smesso di giocare e ho iniziato a fare l’assistente di Eriksson in panchina per sei mesi, nel frattempo ho preso il patentino d’allenatore».

Iniziava una nuova carriera...

«Prima la Fiorentina, mi chiamò Cecchi Gori. Uomo straordinario che ha avuto dal calcio e dalla vita molto meno di quanto meritasse. Io ero un allenatore ragazzino, i miei giocatori avevano più o meno la mia stessa età. Poi di nuovo la Lazio, poi in Inghilterra con il Manchester City, che non era lo squadrone di adesso, però lo diventò. E poi l’Inter, che riportai dopo tanti anni a vincere lo scudetto. Ho vinto molto da allenatore: Coppe Italia, Supercoppe, campionati».

Poi arriva la chiamata azzurra.

«Ricordo perfettamente quel momento. Stentavo a crederci. Per un allenatore diventare ct della Nazionale è il sogno più grande. Si stava realizzando».

Ha accettato subito?

«Non nego che nonostante avessi alle spalle parecchie esperienze su panchine importanti, pensare di tornare ad indossare quella maglia azzurra non da giocatore ma da ct, un po’ mi ha fatto tremare le gambe».

Si è confrontato con qualcuno prima di decidere?

«Feci una telefonata a Vialli».

Cosa vi siete detti?

«Luca mi disse di accettare subito. E così feci. Dopo un anno arrivò anche lui. Un’avventura straordinaria condivisa insieme. Il miglior coronamento di un’amicizia unica».

Come sono stati quei cinque anni in Nazionale?

«Meravigliosi. Qualche difficoltà all’inizio, per poi inanellare una serie di vittorie e record di cui vado orgoglioso».

Si riferisce a Wembley?

«Riportare l’Italia dopo cinquant’anni anni sul tetto d’Europa è stata un’emozione indescrivibile».

E la mancata qualificazione ai Mondiali?

«Una ferita che brucia ancora.

Un conto in sospeso con i tifosi».

Poi qualcosa si è rotto e come un fulmine a ciel sereno esce la notizia che lei ha deciso di lasciare la panchina della Nazionale.

«Dobbiamo parlarne per forza?».

Beh, forse i tifosi italiani meritano qualche risposta...

«Come le dissi in un’altra intervista, quel saldo rapporto di fiducia che avevo con la Federazione si era reciprocamente incrinato».

Mi permette di dirle che non credo a questa versione?

«Mettiamola così. Se potessi tornare indietro affronterei tutto in modo diverso».

In che senso?

«Se io e il presidente Gravina ci fossimo parlati, spiegati, chiariti, probabilmente le cose non sarebbero andate così».

Solo mancanza di dialogo? Non mi convince ancora...

«Allenare sentendo che la fiducia sulla tua persona vacilla, mi creda, non è una bella sensazione. Non ti garantisce di poter lavorare con la giusta serenità. Nonostante ciò mi rimprovero di non aver affrontato il tutto con più chiarezza».

Con Gravina intende?

«Sì, fra noi c’è sempre stato un rapporto basato su una grande stima e dialogo. E la volta che forse era necessario parlare con chiarezza, non è stato fatto».

Sarà. Ma io, come molti tifosi, penso che la proposta economica araba abbia fatto la differenza. Sbaglio?

«Non nego che, per un allenatore, la proposta di una cifra così alta - anche se inferiore a quella raccontata dai giornali, eh -, ti metta in crisi. Però non è stata determinante. Ha inciso, ma non è stato solo per quello che ho lasciato la panchina della Nazionale».

Rifarebbe quella scelta?

«No, non la rifarei».

Lo dice solo perché le cose da ct della nazionale araba non sono andate come sperava?

«No».

Allora perché?

«Le capita mai di pentirsi per una scelta sbagliata? Ecco, lasciare la Nazionale italiana è stata una scelta sbagliata che non rifarei».

Com’è stata la sua esperienza in Arabia?

«Personalmente, nonostante le cose non siano andate come avrei sperato, sono soddisfatto. Ho lavorato bene con il gruppo. I ragazzi mi hanno seguito e credo di avere lasciato loro buone basi su cui costruire qualcosa di positivo».

Con la dirigenza in che rapporti si è lasciato?

«Buoni rapporti. C’è sempre stata una grande disponibilità e collaborazione».

Buonuscita faraonica?

«Come per l’ingaggio, ai giornali piace fantasticare».

Hanno fantasticato anche quando l’hanno data vicinissimo alla panchina della Roma?

«Sì, anche in quel caso. Non sono mai stato contattato per la panchina della Roma. Nessuna chiamata dalla dirigenza».

Le ha fatto piacere leggere il suo nome per giorni come primo della lista dei possibili sostituti di Juric?

«Mi ha fatto piacere leggere che molti tifosi romanisti ne sarebbero stati felici e molti laziali incazzati».

Se la Roma l’avesse chiamata come avrebbe risposto?

«Se ci fossero state le condizioni di un bel progetto da portare avanti insieme, avrei risposto di sì».

Sbaglio o è nonno?

«Altra domanda...».

Perché, non è felice?

«Ma certo, amo immensamente Sophia, la figlia del mio primogenito Filippo. Però non ero pronto a farmi chiamare nonno».

Ora lo è?

«No».

Non ha un bel rapporto con il tempo che passa, eh?

«Non mi fa impazzire».

Sua figlia Camilla ha da poco pubblicato un libro dove ha trattato temi come il bullismo di cui è stata vittima da bambina. Cosa ne pensa?

«Sono orgogliosissimo di lei. È una ragazza straordinaria che ha dovuto superare molte difficoltà a causa del problema al volto che si porta dalla nascita».

Che padre è stato?

«Imperfetto, probabilmente troppo assente perché questo lavoro ti porta a stare spesso lontano, ma ho un amore incondizionato verso di loro. Spero di poter recuperare».

Non abbiamo parlato di suo figlio Andrea.

«È in Spagna come assistente al Barcellona».

Il suo rapporto con i giornalisti?

«Non ho problemi con i giornalisti in generale. Però non nego che in questi due anni ho capito e apprezzato chi mi ha mosso critiche costruttive (pochi) e chi invece ha preferito infierire con cattiveria».

Come festeggerà i suoi sessant’anni?

«A Jesi, in famiglia, fra i miei affetti e i miei amici più cari».

Chi le manca?

«Luca, Eriksson, Mihajlovic. Lei non può immaginare nemmeno quanto mi mancano. Che solitudine, che deserto mi hanno lasciato nel cuore».

Che regalo vorrebbe farsi?

«Alzare la Coppa del mondo. Ho ancora un conto in sospeso».

Con chi?

«Appena diventai ct della Nazionale dichiarai i miei due obiettivi: vincere un Europeo e un Mondiale».

Auguri per i suoi sessant’anni, mister.

«Diciamo 6 volte 10, è meglio».

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