C'era una volta Gigi Meroni, il 7 del Toro mai dimenticato

Lo chiamavano la "farfalla" per il suo modo di giocare: in campo volteggiava e dribblava gli avversari in modo funambolico. Nella vita era un anticonformista (cosa che molti non amavano). Morì tragicamente a soli 24 anni travolto da un'auto

C'era una volta Gigi Meroni, il 7 del Toro mai dimenticato
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"Stella del calcio granata e nazionale 1943-1967". Si legge questo nella targa di corso Re Umberto, a Torino, murata sul monumento di granito rosso che ricorda Gigi Meroni, il fantasista morto soli 24 anni dopo essere stato travolto da un'auto. Un eroe sfortunato mai dimenticato dal tifo granata, e non solo. Centrocampista dotato di piedi deliziosi, in serie A giocò 145 partite realizzando 29 reti. Aveva fantasia da vendere, velocità e dribbling fulminante.

Nato a Como nel 1943, rimasto orfano di padre a soli due anni, si fece le ossa nel campetto dell'oratorio di San Bartolomeo, venti metri per quaranta, facendo vedere cose strabilianti. Gli osservatori dell'Inter misero gli occhi su di lui ma la mamma non se la sentì di lasciarlo partire per Milano a soli quindici anni. Passò così alle giovanili lariane e a diciassette anni l'esordio in prima squadra. Nel 1962 il passaggio al Genoa, in B, dove rimase due anni e, specie nel secondo anno (stagione 1963-64) fece vedere i grandi numeri che aveva. A Genova amarono questo campioncino in erba e quando fu deciso il suo passaggio al Torino la tifoseria rossoblu fece di tutto per impedirlo. Ma i trecento milioni messi sul piatto dai granata non erano poca cosa, e così il Grifone non riuscì a trattenerlo.

A Torino si mise in mostra e in poco tempo divenne un vero e proprio idolo. Così non sorprende che, anche all'ombra della Mole, ci fu una mezza insurrezione quando si vociferò che potesse trasferirsi nientepopodimeno che alla Juve. Alla fine il presidente del Toro, Orfeo Pianelli, disse no a un'offerta di 750 milioni e si tenne il fantasista.

Meroni amava vivere controcorrente, al di fuori degli schemi. Proprio come le sue giocate, imprevedibili e spiazzanti. Teneva i calzettoni abbassati, la maglietta fuori dai pantaloncini, i capelli (ovviamente) lunghi, spesso non si radeva la barba. I giovani, non solo i tifosi, lo amavano anche per questo suo anticonformismo. Dipingeva - aveva una casa che sembrava quasi un atelier - e amava indossare abiti che lui stesso disegnava, spesso coi pantaloni a zampa di elefante e giacche molto vistose. Un altro vezzo, per certi versi bislacco, era questo: portava a passeggio, al guinzaglio, una gallina. E tutti, vedendolo, si divertivano come matti. In unepoca in cui il Sessantotto ancora non era esploso questa sua eccentricità non piaceva a tutti. Anzi, molti lo criticavano apertamente, o non lo prendevano sul serio.

Un'altra sfida che Meroni rivolse alla società benpensante fu quella di andare a vivere con una ragazza che aveva conosciuto a Genova, Cristiana Uderstadt, che aveva conosciuto al luna park. La storia tra i due fu contrastata dalla famiglia di lei, che si sposò con un regista. ma poco dopo la giovane donna raggiunse il suo Gigi a Torino.

Anche il ct della Nazionale azzurra Edmondo Fabbri non sopportava lo stile eccessivamente sopra le righe di Meroni, in cui intravedeva dei potenziali rischi di destabilizzazione di tutto il gruppo. Fabbri accettò di chiamarlo in azzurro solo dopo la spinta popolare e trovando un compromesso col giocatore: si sarebbe accorciato i capelli in cambio di un posto nella Nazionale. Le cose però non gli andarono bene in azzurro: complessivamente chiuse la sua esperienza con appena sei partite e due reti. E il nuovo ct, Ferruccio Valcareggi, non lo convocò più.

La tragica notizia della morte di Meroni iniziò a girare dopo le 22.

40 del 15 ottobre 1967. Enzo Tortora, che all'epoca conduceva la Domenica Sportiva, non se la sentì di parlarne in diretta. Così la morte della "Farfalla granata" arrivò il giorno dopo agli italiani, tramite i giornali.

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