La grande assente dal Mondiale: ecco la storia travagliata del calcio in Cina

Il calcio del "dragone" era molto atteso a inizio secolo, gli investimenti fatti negli ultimi anni sembravano portare verso un suo rapido sviluppo: ma la Cina è la grande assente dal Mondiale

La grande assente dal Mondiale: ecco la storia travagliata del calcio in Cina

È il 7 ottobre 2001. Il mondo guarda quella sera con apprensione a quanto accade a Kabul, lì dove gli Usa hanno iniziato i bombardamenti contro i talebani a meno di un mese dagli attacchi alle Torri gemelle. Una serata iconica nella fase di passaggio tra il XX e il XXI secolo. Anche in Cina si seguono le notizie che arrivano dall'Afghanistan. Ma l'attenzione del “dragone” in quelle ore è proiettata anche su altro. Improvvisamente i cinesi capiscono cosa vuol dire distrarsi grazie a una partita di calcio. La tv di Stato CCTV trasmette in diretta dallo stadio di Shenyang la sfida tra Cina e Oman. Alla nazionale di casa basta segnare un gol in quella sfida per qualificarsi ai mondiali. E il gol arriva, con più di 500 milioni di cinesi che esultano e che a stento credono a quanto accaduto davanti i loro occhi: la Cina ha strappato il pass per il campionato del mondo.

Anche per il calcio quindi quella serata sembra assumere l'aspetto iconico del passaggio nel nuovo secolo. Un secolo in cui ci si aspetta dal dragone l'ingresso nell'olimpo nel mondo del pallone. La vittoria contro l'Oman sembra solo il primo passo in questa direzione. L'attesa però continua ancora adesso. O forse è già del tutto svanita. La qualificazione della Cina al primo mondiale del XXI secolo è come un fuoco di paglia, subito spentosi nonostante Pechino continui negli anni ad alimentarlo. Oggi proprio il dragone, almeno fino ad adesso, è il grande assente dai mondiali e dal pianeta del calcio internazionale.

La partecipazione al mondiale del 2002

Il “miracolo” sportivo del 7 ottobre 2001 parte da lontano. Almeno da dieci anni prima, quando la federcalcio cinese decide di dare vita al primo campionato professionistico della sua storia. Un campionato che prende forma nel 1994 con 12 squadre al via. Pechino, alla vigilia del boom economico, ha fretta di diventare grande potenza e per farlo vuole investire anche nello sport e, in particolare, nello sport più popolare al mondo. Investimenti che non danno però subito i propri frutti. La Cina nel primo decennio di calcio professionistico non sforna grandi talenti.

Nan Yung, presidente della federcalcio, decide allora nel 2000 di ingaggiare un allenatore profondo conoscitore del calcio internazionale. Contatta così Bora Milutinovic, uno che di Mondiali se ne intende eccome. La sua è una storia incredibile. Nato in Serbia, come calciatore negli anni '60 se la cava bene a centrocampo nel “suo” Partizan di Belgrado, ma subito dopo decide di uscire dai confini dell'ex Jugoslavia. Va prima a giocare in Francia, poi a sorpresa lo si ritrova a fine carriera tra i messicani del Pumas. Ed è proprio in Messico che inizia la sua leggenda di “allenatore giramondo”. Allena infatti la nazionale locale nei mondiali ospitati dal Paese nordamericano nel 1986, uscendo solo ai quarti di finale e solo ai rigori contro la Germania Ovest. Quattro anni più tardi guida il Costa Rica agli ottavi di finale a Italia '90. Poi forse la sfida più difficile, quella di non far sfigurare la nazionale degli Stati Uniti nel mondiale casalingo del 1994. Un'operazione che riesce, visto che gli Usa si spingono fino agli ottavi di finale. Dopo un breve ritorno in Messico, Milutinovic vola in Africa per allenare la Nigeria e spingerla anche in questo caso fino agli ottavi nel mondiale di Francia '98.

Nel gennaio del 2000 accetta la sfida di guidare la nazionale cinese. L'occasione per il movimento calcistico del dragone è ghiotta. Nel 2002 i mondiali per la prima volta si giocano in Asia, sono ospitati dalla Corea del Sud e dal Giappone. Il calcio asiatico, accreditato di 4 o 5 posti ai mondiali, si divide da anni a metà: da un lato le “potenze mediorientali”, con in testa Arabia Saudita e Iran, dall'altro quelle dell'estremo oriente, principalmente Corea del Sud e Giappone. Queste ultime però sono già qualificate di diritto come Paesi ospitanti, la Cina quindi è l'unica nazionale orientale che nei gironi di qualificazione può tenere testa alle squadre mediorientali.

Milutinovic non dispone di grandi talenti. Il calciatore più di esperienza è il difensore Fan Zhiyi, il quale gioca in Premier con il Crystal Palace. C'è poi il difensore del Manchester City (all'epoca squadra ascensore tra serie maggiore e serie minori), Sun Jihai. Altro giocatore in Europa è l'attaccante Yang Chen dell'Eintracht Francoforte. Tutti gli altri militano in squadre cinesi. L'allenatore serbo lavora quindi per creare una forte coesione di gruppo e convince la federcalcio a organizzare molte amichevoli. Di mezzo c'è anche la Coppa d'Asia in Libano in estate, dove la Cina dimostra di aver fatto passi in avanti arrivando in semifinale. C'è poi il primo girone eliminatorio, fatto apposta però per dare modo alle grandi del continente di effettuare le prime sgambate. La nazionale di Milutinovic batte facilmente Indonesia, Maldive e Cambogia.

Si passa quindi al girone finale. Senza Corea del Sud e Giappone, la Cina deve vedersela principalmente con le nazionali mediorientali. Nel suo raggruppamento quella più pericolosa è la squadra degli Emirati Arabi Uniti, forte di una partecipazione ai mondiali nel 1990. Ma la formazione cinese la batte in casa per tre a zero e ad Abu Dhabi per uno a zero. Oman, Qatar e Uzbekistan non costituiscono grandi ostacoli e così il 7 ottobre, con la vittoria contro l'Oman, la Cina può festeggiare la prima storica qualificazione al mondiale.

I sorteggi la pongono nel gruppo C con Brasile, Costa Rica e Turchia. Le sue partite le gioca in Corea del Sud e non vanno molto bene. Tiene nel primo tempo all'esordio contro il Costa Rica, ma la squadra centroamericana passa poi per due a zero. Arriva poi una prevedibile “imbarcata” con i brasiliani, i quali realizzano quattro reti. Con la Turchia infine la Cina perde con tre gol di scarto.

Il calcio come "soft power" cinese

Nemmeno un punto e nemmeno un gol fatto in terra coreana, ma tutto il lavoro svolto nel decennio che porta poi la Cina al suo primo Mondiale sembra solo l'inizio di una storia destinata a durare a lungo. La federcalcio vuole investire molto e ha l'appoggio del governo. Nel luglio 2001 Pechino ottiene l'assegnazione delle Olimpiadi del 2008, i quadri dirigenti puntano così sulla crescita delle nazionali cinesi in ogni sport. Anche nel calcio. La Cina, con ambizioni di potenza, non può fare a meno del soft power dato dal mondo del pallone. Nel 2004 la federcalcio riforma i campionati e dà vita alla “Super League”, in quello stesso anno il dragone ospita la Coppa d'Asia e per la prima volta dopo vent'anni arriva in finale, dove perde poi contro il Giappone non senza recriminazioni (sportive e politiche).

Il lavoro sembra dare i propri frutti. Il movimento cresce e anche se coreani e giapponesi sono ancora molto più avanti, c'è speranza di colmare il distacco in pochi anni. Le mancate qualificazioni ai mondiali del 2006 e del 2010 sono però avvisaglie gravi. Il primo decennio del nuovo secolo non basta evidentemente per stabilizzarsi tra i grandi. Una svolta arriva con la salita al potere di Xi Jinping. Il nuovo leader cinese viene descritto come un grande appassionato di calcio. Ma soprattutto, vede anche lui nello sport un modo per propagandare la crescita cinese, la sua scalata nel novero delle potenze.

Inizia così l'era dei grandi investimenti. Viene data via libera ai più importanti colossi cinesi di intervenire direttamente nel mondo del calcio. E questo sia in patria che all'estero. Evergrande, colosso dell'edilizia, acquista assieme ad AliBaba Group il Guangzhou. La squadra, con Marcello Lippi e Fabio Cannavaro in panchina, domina per alcuni anni i campionati e vince anche una coppa d'Asia. Non solo, ma Evergrande fonda a Canton la più grande accademia di calcio al mondo. Wanda Group acquista invece il Dalian Pro, mentre il gruppo Suning rileva e porta alla vittoria lo Jiangsu. Suning è protagonista anche di importanti investimenti all'estero, come testimoniato dall'acquisto dell'Inter nell'estate del 2016. Un segno quest'ultimo di come la Cina non voglia solo competere a livello sportivo, ma anche sotto il profilo economico intervenendo a piene mani nel calcio europeo. Lo dimostra anche l'acquisto del 13% delle quote del City Group, il gruppo che controlla il Manchester City, da parte di China Media Capital.

La fine dei maxi investimenti

Portafogli senza fondo, costruzione di accademie e nuovi grandi stadi, arrivo nel campionato locale di giocatori quali Drogba, Anelka, Hulk, Oscar, Lucas Barrios, Alex Teixeira, Paulinho, giusto per fare qualche nome. La scalata del dragone ai vertici del calcio internazionale sembra inesorabile. Qualcosa però va storto. In primo luogo, i risultati continuano a non arrivare. La nazionale rimane ben lontana dal bissare la qualificazione ai mondiali del 2002. Inoltre nonostante tanti investimenti in accademie e scuole calcio, non emerge alcun talento particolare. L'attuale nazionale non ha in rosa, a differenza delle selezioni giapponesi e sudcoreane, giocatori che militano in Europa.

Si inizia a capire, sul finire degli anni '10, che forse i soldi vengono spesi malamente. Per non dire inutilmente. Il governo decide così di chiudere i rubinetti: dal 2017 in poi vengono imposti limiti negli investimenti all'estero, vengono banditi i nomi dei club contenenti i marchi delle società proprietarie, viene stabilito un tetto agli stipendi dei calciatori.

I giocatori stranieri scappano via, molte squadre (almeno 58 tra le varie leghe professionistiche, tra cui lo Jiangsu di Suning) falliscono e il campionato perde di interesse. La “festa” del dragone, a livello calcistico, finisce qui. Dulcis in fundo, la nazionale anche per la corsa a Qatar 2022 risulta profondamente attardata rispetto alle potenze calcistiche asiatiche e, attualmente, è numero 79 nel ranking Fifa.

Quale futuro per il calcio cinese?

Il coronavirus ha dato la mazzata finale ai progetti faraonici del dragone. La politica “Covid zero” mette in dubbio oggi, in primis a livello logistico, ogni competizione sportiva organizzata in Cina. Tanto è vero che la Coppa d'Asia, assegnata al gigante asiatico, nel 2023 si svolgerà negli stadi ancora tirati a lucido per il mondiale del Qatar. La domanda quindi è una: il calcio cinese è destinato a essere sempre fuori dai circuiti internazionali che contano?

Difficile dirlo. Andando a guardare i numeri, forse la Cina può essere in lizza per qualificarsi per il mondiale del 2026, il primo a 48 squadre e il primo in cui l'Asia esprimerà almeno otto squadre. Più posti quindi anche per chi per adesso è rimasto indietro. Nel lungo periodo occorre evidenziare che, tutto sommato, il calcio ai cinesi piace. Lo descrive molto bene il giornalista Rowans Simons, profondo conoscitore del Paese asiatico, il quale nei suoi libri parla di una Cina appassionata del mondo del pallone, incuriosita da questo sport e spettatrice fedele dei suoi eventi più importanti.

Manca la cultura calcistica che conta probabilmente, ma non la passione. Forse la Cina o, per meglio dire, il governo cinese in questi anni si è reso conto di una cosa: il calcio può essere sì una grande industria, ma non è e non sarà mai una scienza perfetta. Impossibile pensare di sviluppare un movimento calcistico con la stessa modalità con cui Pechino pianifica l'economia. Far piovere soldi su accademie, campioni e squadre locali ed europee non significa garantirsi, come nei piani del governo e della federcalcio, il raggiungimento di specifici obiettivi entro una specifica data.

Un calcio costruito dall'alto è in realtà l'anti calcio, destinato a non scrivere mai significative pagine di storia. Se la Cina vuole diventare una potenza nel pallone, deve ancora aspettare che la sua passione dia vita a una qualche forma di tradizione.

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