Francia, estate 1993. L'Olympique Marsiglia è appena stata sepolta da un mostruoso scandalo per partite pilotate e molti big sono costretti a fare la valigia per scongiurare il dissesto del club. Compreso il capocannoniere del campionato, nonché artefice di una stagione assolutamente effervescente insieme ai compagni: prima il titolo nazionale - poi revocato - quindi la Coppa dei Campioni, vinta a Monaco contro il Milan. Lui, alto e spigoloso, sembra uno di quei fili di rame impossibili da spezzare. Occhi celesti e fronte ampia, sormontata da una liscia chioma color grano. Viene dalla Croazia ed ha appena finito di fare 23 gol in 37 partite. Il profilo è dunque quello del bomber purosangue, ma la storia è spesso un intrico di insondabili varianti e Alen Boksic, perché è questo il suo nome, sta per sperimentarlo direttamente.
Su di lui cala l'interesse saldo della Lazio di Cragnotti, che se lo aggiudica per 15 miliardi di lire. Alen è entusiasta, perché in panchina c'è Zeman, uno che sa come valorizzare al massimo gli attaccanti. Però, lo si intuisce fin dalle primissime partite, è come se la sua vena sotto porta si fosse improvvisamente raggrumita. Il signore feudale in campo, per quella squadra, può essere uno soltanto: Beppe Gol. Giuseppe Signori. Boksic lo capisce e lo accetta, diventandone fidato scudiero. Apre fenditure in cui il dieci laziale si infila, infilzando reti in serie. Troneggia su tutto il fronte offensivo, spesso partendo da esterno nel tridente, per sprigionare uno strapotere fisico che lo fa apparire bionico, di almeno tre spanne superiore alla media. Alen, per tutti, diventa l'Alieno.
Il fatto che segni il giusto non deve per forza essere letto come un declassamento della sua figura. Boksic respinge l'idea di immalinconirsi e puntella ogni singola prestazione con una ferocia agonistica a tratti inusitata, squarciando letteralmente le difese altrui con il suo irresistibile incedere palla al piede. Pare quasi un bolide destinato a schiantare qualsiasi oggetto o persona entri in collisione. Gli avversari lo raddoppiano e lo triplicano nelle marcature, ma non è sufficiente. Sono disperati. Quando però giunge finalmente davanti allo specchio, il croato si smarrisce. La specialità della casa diventa il missile - perché Alen calcia comunque fortissimo - addosso al portiere. Quando va peggio la palla scheggia i legni o finisce in curva. Di lui Alessandro Nesta dirà: "Per il 95% del tempo con la palla è il giocatore più forte del mondo. Peccato per il restante 5%".
Stiamo parlando, del resto, di un calciatore in grado di piazzarsi quarto nella classifica del Pallone d'oro 1993, alle spalle soltanto del nostro Roby Baggio, di Dennis Bergkamp e di Eric Cantona. Le qualità sono incontestabili e Zeman stesso, qualche anno più tardi, confermerà che nel suo tridente ideale lui c'è sempre, insieme a Totti e Signori. Alen resta alla Lazio fino al 1996, infilando 67 presenze e 17 reti. Un bottino tutt'altro che pingue, ma non è questo il punto che determina la rottura. Il croato non riesce a digerire i metodi di allenamento imposti dal boemo e, gradualmente, il rapporto si affievolisce.
Subentra allora la Juventus. Luciano Moggi mette sul piatto 25 miliardi di lire, per piazzarlo al centro dell'attacco. Quanto ai gol, la situazione non cambierà molto: in 33 presenze ne segna soltanto 7, ma sono specialmente quelli in Champions a pesare. Buca il Man Utd all'esordio a Torino, poi il Fenerbache e, due volte, il Rapid Vienna. Vince lo scudetto, la Supercoppa europea e l'Intercontinentale, ma sprofonda come gli altri nella delusione di Monaco, quando i bianconeri cedono al Dortmund nella finale della coppa dalle grandi orecchie. I guai fisici che lo assediano contribuiscono però ad allontanarlo dalla Vecchia Signora.
Resta un anno soltanto, per tornare alla Lazio, visto che adesso in panca siede Sven-Goran Eriksson.
In biancoceleste farà un secondo triennio condito da 14 gol in 48 presenze, anche perché ci sono ancora gli infortuni da tenere a bada. Salperà poi per l'Inghilterra, direzione Middlesbrough, dove si svilupperanno i titoli di coda di una carriera che sempre ha fornito impressioni di eccellenza, derubricate poi al grado di prestazioni ottime.
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