Serbo e fiero di esserlo: ecco il Mihajlovic "politico"

Arkan, Milosevic, la guerra civile: le tante uscite "politiche" di Mihajlovic, serbo al cento per cento

Mihajlovic nel 1991, ai tempi della Stella Rossa Belgrado (Twitter)
Mihajlovic nel 1991, ai tempi della Stella Rossa Belgrado (Twitter)

Se la malattia e la morte di Sinisa Mihajlovic hanno destato tanta commozione nel mondo del calcio è anche perché nella debolezza l'ex giocatore di Stella Rossa, Lazio e Inter è parso quello di sempre: tenace, duro, coriaceo. Così era, Mihajlovic, sempre uguale a sé stesso, mai voltagabbana: a costo di prendere posizioni radicali, lo era anche in termini di visione politica. Una visione politica molto quadrata, radicale, mai ambigua, focalizzata sull'identità serba.

Non si può capire l'uomo Mihajlovic senza pensare al suo contesto di riferimento, quello in cui si affermò come volto pubblico e calciatore di successo: la Jugoslavia del tramonto che si avviava verso la guerra civile. E che alla vigilia dell'inizio della disgregazione dello Stato che fu di Tito era giunta, sui campi da calcio, sul tetto d'Europa e del mondo, grazie alla Stella Rossa Belgrado che vinse la Coppa dei Campioni nella finale di Bari contro l'Olympique Marsiglia e la Coppa Intercontinentale nella sfida contro i cileni del Colo-Colo.

Un vero e proprio Dream Team paragonabile solo a quello della nazionale di calcio della Jugoslavia, che dal croato Boban al montenegrino Savicevic riuniva i più grandi talenti del calcio balcanico e si sarebbe disgregata assieme al Paese nel 1992, venendo esclusa dagli Europei per via della guerra civile scoppiata nel Paese.

La guerra segnò profondamente l'allora 22enne Mihajlovic quando scoppiò nell'estate 1991. Anche - se non soprattutto - perché colpì la città natale di Vukovar, centro croato in cui era nato da madre croata e padre serbo. E portò, inoltre, alla luce i rapporti di Mihajlovic con Željko Ražnatović, conosciuto con il soprannome “Arkan”. A lungo capo ultras della Stella Rossa e criminale serbo, Arkan arruolò le famigerate "Tigri", un'unità paramilitare pescata tra le curve e le galere che nelle guerre jugoslave fu responsabile di crimini di guerra e pulizia etnica in Croazia e in Bosnia. Per ragioni di militanza sportiva il giovane MIhajlovic conosceva Arkan molto bene e alla sua morte, nel 2000, lo definì in un necrologio "un eroe per il popolo serbo". Parole che destarono scalpore ma che nel 2020 l'allenatore ai tempi in forza al Bologna spiegò parlando su Sky Sport a Paolo Condò e raccontò di come le "Tigri" risparmiarono suo zio, croato, trovando sul suo telefono cellulare il numero di Sinisa. Questo nonostante il fratello della madre avesse dichiarato esplicitamente di voler "scannare come un porco" il padre del centrocampista e difensore serbo.

In un'intervista rilasciata ad Andrea Di Caro de La Gazzetta dello Sport, pochi mesi prima, Mihajlovic aveva condannato la guerra dei Balcani in forma trasversale rifiutando però una colpevolizzazione esclusiva dei serbi: "Dovranno passare due generazioni prima di poter giudicare cosa è accaduto. È stato devastante per tutti. Quello che racconto io, lo può raccontare anche un croato o un bosniaco. Abbiamo vissuto un impazzimento della storia". Un uomo, un campione sul campo ma, prima di tutto, un serbo e un balcanico. Per il quale parole come storia, identità e nazione hanno un significato molto più profondo e divisivo di quanto avvenga in un Paese come l'Italia: e del resto pochi calciatori, come Mihajlovic si sono trovati a giocare in un Paese, l'Italia, mentre il suo Stato natale veniva attaccato da una coalizione comprendente, tra gli altri, lo Stato di residenza.

Successe nel 1999, e Mihajlovic sostenne il governo serbo di Slobodan Milosevic contro i raid della Nato: "Siamo un popolo orgoglioso", disse nel 2009 al Corriere della Sera parlando di questa sua scelta. "Certo tra noi abbiamo sempre litigato, ma siamo tutti serbi. E preferisco combattere per un mio connazionale e difenderlo contro un aggressore esterno": posizioni nette, spesso divisive, forti, ma profondamente umane. Umano, troppo umano era Mihajlovic dietro il rigore del volto e la serietà dei suoi lineamenti. Non si nascondeva mai: in campo, in politica, nel commentare la sua storia personale e l'attualità.

Sempre controcorrente, come tanti serbi di fronte all'Occidente: forse perché (in passato) così divisivo, ha unito tutti nella fragilità e nella sfida alla malattia. Di fronte alla quale conta esser ciò che vale la pena: un uomo degno di questa definizione.

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