Oronzo Pugliese, il "mago dei poveri" che ispirò Canà e sconfisse Herrera

Frenetico in panchina, debordante nell'eloquio, motivatore eccelso di combriccole di provincia: il suo approccio al calcio era cinema puro

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Corre come se avesse un demone alle costole, su e giù lungo la linea laterale. Praticamente a fine partita avrà fatto più chilometri lui di molti dei suoi ragazzi. Poi si precipita in sala stampa, dove annichilisce gli sventurati giornalisti con quel suo eloquio vorticoso e debordante, sempre teso a pungolare allo spasmo squadre dal bagaglio tecnico modesto, rivedibile. Perché Oronzo Pugliese è fatto proprio così: impetuoso, genuino, pragmatico. Uno spasso per i media del tempo, ma anche un formidabile prestigiatore di provincia.

Era nato a Turi nel 1910, Oronzo, nella Puglia più profonda. Il calcio l'aveva subito sedotto in modo irreversibile: tambureggiava sul muro della parrocchia da pargolo e sarebbe diventato giocatore dignitoso in seguito, seppur sempre attraversando contesti figli di una divinità cadetta. Poi però c'era stata quella svolta, una volta appesi gli scarpini. Si era scoperto che lui in panca ci sapeva fare alla grande. E allora aveva iniziato a guidare una sequela di squadre mezze sfasciate, glassate di provincialismo, munite di ambizioni ridotte. Puntualmente, le aveva trascinate ben oltre le attese ipotizzate dai diagrammi, subito dissipando i dubbi della gente. Spruzzava fiotti di speranza calcistica sui cuori malandati di chi non aveva vinto mai ed era sul punto di insorgere.

Poi lo aveva chiamato il Foggia di Domenico Rosa Rosa - per i più intimi Mimì - industriale del legno che mica ci stava a vedere la sua creatura ancorata agli abissi della serie C. Avrebbe allenato ragazzi che di cognome facevano Santopadre e Stornaiuolo, Corradi e Bartali e poi tutti quegli altri. Era una piazza depressa, disperatamente alla ricerca di un guizzo, di una nuova e più ambiziosa ragion d'essere. Oronzo non si era fatto pregare. Gestuale e strillante da bordo campo, torrenziale nelle arringhe pre partita, sempre elegante eppure semplice. "Mi dicono che sono un allenatore provinciale - sbottò una volta - ma che significa? Non ho una laurea in Giurisprudenza e o in qualche altra diavoleria, è vero. Ma una laurea in calcisticheria ce l'ho!".

Poderosamente persuaso dei suoi mezzi, era riuscito nella miracolosa impresa di far credere ai suoi - pressoché ovunque allenò - che potevano rendere almeno il venti per cento in più di quello che stavano facendo. Trascinò il Foggia in B, poi agganciò anche la serie A. Ed è qui che conquistò un'onorificenza che l'avrebbe accompagnato per sempre. Successe quando sfidò la monumentale Inter del Mago Helenio Herrera, quella dei Sarti, dei Facchetti, dei Burgnich, del primo triplete. Il suo Foggia la sconfisse per 3-2 e subito i giornali gongolarono.

"Il mago di Turi", titolò qualcuno. "Il mago dei poveri", disse qualcun altro. Nel frattempo gli assegnavano il Seminatore d'oro, il riconoscimento più alto che un allenatore potesse immaginare. Ci era arrivato armato di un convincimento che venerava ossequiosamente: i più deboli possono sempre battere i più forti. Alla fine si tratta di undici uomini contro undici uomini.

I tratti più esasperati del suo carattere ispirarono, molti anni dopo, la mitologica figura di Oronzo

Canà, l'allenatore nel pallone impersonato da Lino Banfi. Anche se forse Pugliese avrebbe pensato che sarebbe stato preferibile un prestigiatore: la vera magia, in fondo, è quella di riuscire a fare tanto con molto poco.

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