
Ci sono partite di calcio che sono state esaminate da qualsiasi angolatura. Capita a quei match che restano scolpiti nella storia per l'epicità dei gesti o del risultato, per quello che hanno significato sportivamente e umanamente. Per le emozioni che hanno saputo distribuire. Così, non è affatto un caso che Italia-Germania Ovest 4-3, ribattezzata "La partita del secolo" dagli addetti ai lavori, resti ancora oggi, a distanza di oltre cinquant'anni, un riferimento indelebile. Eppure, è naturale soffermarsi su quello che è avvenuto in campo, tralasciando comprensibilmente l'ecosistema circostante.
A quella semifinale dei Mondiali messicani del 1970, in quello stadio Azteca, ci si era arrivati camminando sui cocci di vetro. Rivera, in particolare, aveva fatto sapere come le polemiche dei giornalisti - che bollavano come eccessivamente "tiepido" il percorso messicano e non risparmiavano critiche per il fallimento dei due mondiali precedenti - fossero eccessive e poco gradite. Mettavano pressione, sosteneva il fantasista, ad un ambiente che aveva bisogno di concentrazione e leggerezza.
Equilibrio delicato da trovare, sia fuori che in campo. L'iniziale vantaggio italiano con Boninsegna, il pareggio tedesco con Schnellinger e, dunque, il thriller che ne era conseguito con il sorpasso piazzato da Muller, il pareggio di Burgnich, il terzo messo a segno da Riva, l'altra rete di Muller che riequilibrava tutto e, infine, il gol decisivo di Rivera. Un susseguirsi frenetico di palpitazioni che aveva tenuto incollati milioni di spettatori. Una grandinata di gol che, probabilmente, erano da imputarsi alla stanchezza e alla lunghezza delle squadre, giunte stremate ai supplementari.
Lì il gesto tecnico iniziava a rarefarsi. I tatticismi si appannavano. Però, come facevi a criticare una partita così speciale? Facevi, in realtà, se eri un giornalista dell'epoca. Uno dei puristi, come li avrebbero definiti in seguito. Perché quel gioco sfilacciato non piacque per nulla a chi professava la necessità degli schemi e della pulizia di passaggio. Non piacque a molti, si diceva, ma in particolare a trovarlo detestabile fu la più illuminata delle penne sportive, Gianni Brera, che dalle colonne de Il Giorno demolì così la partita:
"I tedeschi sono battuti. Beckenbauer con braccio al collo fa tenerezza ai sentimenti (a mi, nanca un po’). Ben sette gol sono stati segnati. Tre soli su azione degna di questo nome: Schnellinger, Riva, Rivera. Tutti gli altri, rimediati. Due autogol italiani (pensa te!). Un autogol tedesco (Burgnich). Una saetta di Bonimba ispirata da un rimpallo fortunato. Come dico, la gente si è tanto commossa e divertita. Noi abbiamo rischiato l’infarto, non per ischerzo, non per posa. Il calcio giocato è stato quasi tutto confuso e scadente, se dobbiamo giudicarlo sotto l’aspetto tecnico-tattico. Sotto l’aspetto agonistico, quindi anche sentimentale, una vera squisitezza, tanto è vero che i messicani non la finiscono di laudare (in quanto di calcio poco ne san masticare, pori nan)".
Brera non aveva ancora concluso. Nella sua invettiva ne aveva praticamente per tutti, guida tecnica compresa: "I tedeschi meritano l'onore delle armi. Hanno sbagliato meno di noi ma il loro prolungato errore tattico è stato fondamentale. Noi ne abbiamo commesse più di Ravetta, famoso scavezzacollo lombardo. Ci è andata bene. Siamo stati anche bravi a tentare sempre, dopo il grazioso regalo fatto a Burgnich (2-2). L'idea di impiegare i dioscuri Mazzola e Rivera è stata un po' meno allegra che nell'amichevole con il Messico. Effettivamente Rivera va tolto dalla difesa. Io non ce l'ho affatto con il biondo e gentile Rivera, maledetti: io non posso vedere il calcio a rovescio: sono pagato per fare questo mestiere. Vi siete accorti o no del disastro che Rivera ha propiziato nel secondo tempo? Tutto all’aria, tutto sconnesso. […] I sentimentali, immagino, avranno cantato sonori peana per tutti. Preferisco attenermi alla realtà non senza ringraziare i tedeschi per la loro cieca dabbenaggine tattica e l’arbitro Yamasaki per la sua vigile comprensione… Ora siamo in finale, e si può vincere.
Ma bisogna condurre veramente la squadra, non guardarla atterriti dalla panchina".Un'intemerata coraggiosa e onesta, che oggi - nell'epoca del risultato che sopravanza ogni cosa - difficilmente troverebbe spazio.
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