Chissà cosa staranno pensando, in questo momento, Stéphanie Frappart, Yoshimi Yamashita e Salima Mukansanga: nel (quasi) giro di boa del Mondiale qatariota che continua a far discutere ininterrottamente addettə ai lavori ed appassionatə di tutto il globo, le tre direttrici di gara, affiancate dalle tre (su sessantanove) guardalinee, Back, Diaz Medina e Nesbitt, convocate dalla Commissione arbitrale della Fifa – un fatto di portata storica per l’evento calcistico più importante e seguito in termini assoluti – sono rimaste, ad ora, praticamente solo a guardare. Impiegate soltanto come quarto ufficiale fin qui e meno di dieci volte su più di trenta gare già disputate. Un ruolo a bordo campo che pare davvero troppo marginale per queste professioniste dal curriculum brillante e, a tratti, sorprendente per la storia che porta con sé.
Eppure, Pierluigi Collina, dallo scranno della presidenza della Commissione Fifa, qualche promessa – l’ennesima dalla Federazione, in un Mondiale che non può che continuare ad evidenziare le proprie (endemiche) contraddizioni – l’aveva lanciata sul tavolo: “Questo conclude un lungo processo iniziato diversi anni fa con il dispiegamento di arbitri donne nei tornei junior e senior maschili in Fifa”, l’appunto. “Mi auguro che, in futuro, la selezione di ufficiali di gara femminili per importanti competizioni maschili sia percepita come un fatto normale e non più clamoroso”, l'aggiunta e “In questo modo, sottolineiamo chiaramente che è la qualità che conta, per noi, e non il genere”, l’affondo.
Le loro storie: un fischietto per la rivoluzione
Ci ha impiegato poco Frappart a passare dal piccolo comune natale di Le Plessis-Bouchard ai campi più illustri d’Europa: nel 2014 è la prima donna ad arbitrare una partita di calcio maschile in Ligue 2 (Niort-Brest) e, nel 2019, la prima in Ligue 1 (Amiens–Strasburgo); nel frattempo è presente al Mondiale femminile del 2015, alle Olimpiadi 2016 e agli Europei femminili 2017, fino alla finalissima del Mondiale 2019 che regalerà il quarto titolo alla selezione femminile statunitense. In quello stesso anno che la premierà World’s Best Woman Referee dell’IFFHS, sarà anche la prima direttrice di gara in una finale di Supercoppa UEFA maschile (Liverpool – Chelsea), fino a diventare apripista anche in Europa League (Leicester–Zorja) e in Champions League (Juventus-Dinamo Kiev).
Quasi coetanee, in due mondi lontani che in qualche modo viaggiano in parallelo: Yamashita e Mukansanga hanno già a loro modo – fischietto alla mano – rappresentato traguardi e piccole rivoluzioni nei loro rispettivi paesi. Così, mentre la giapponese classe ‘86, dopo la Coppa del mondo femminile Under 17 del 2016 e del 2018 e il Mondiale 2019 in Francia, nonché le Olimpiadi estive 2020, è la prima donna a regolare una partita di AFC Cup della Confederazione asiatica, Mukansanga diventa vero e proprio riferimento della Ferwafa, la Federazione calcistica del Ruanda: anche lei, passa dalla Women’s World Cup del 2019 ed è la prima donna a far parte del collegio arbitrale della Coppa delle nazioni africane 2021.
Per ora solo parole, parole, parole
D’altronde, lo sport più amato del mondo non è da oggi (né dal Qatar) che fatica a comprendere, e quindi integrare, nel proprio centro di gravità permanente la sua controparte al femminile. Così, ogni qualvolta una donna ha strappato una vittoria, l’ha fatto caricandosi non già del singolo episodio per il quale era chiamata a prontezza e presenza, ma per un intero movimento in formazione e, ancor di più, spesso per l’intero universo femminile: con l’obbligo implicito cioè di dover dimostrare sempre qualcosa in più, perché in campo si è contemporaneamente sole e molteplici nella rappresentazione che si dà a quel mondo che così faticosamente ha mosso i primi passi nell’accettazione di un cambio di paradigma, forse avvicinatosi de iure – con innegabile ritardo ed immensa fatica – ma ancora lontano dal compimento de facto.
Lo sa bene Maria Grazia Pinna, l’italiana che fu prima anticipando il resto d’Europa, quando scese in campo, guanti bianchi e divisa nera, a Firenze, nel 1978, per una partita di campionato Uisp: “Mi sono resa conto che stavo facendo qualcosa di bello per le altre donne solo dopo una decina d’anni. A quel punto, mi sono detta consapevolmente: lo faccio per tutte”.
Com’è ben noto anche a Maria Marotta, che, nel maggio 2021, è la prima donna in Serie B: “Chi diventa prima… chi abbatte le barriere vince una sfida: lo fa per sé, ma anche per gli altri”, dirà in Azzurro Shocking. Allo stesso modo, è proprio Salima Mukansanga, dopo la sua straordinaria convocazione, a parlare così: “Significa che sarò la prima e aprirò le porte ad altre donne, specialmente in Africa. Un peso importante da portare sulle spalle, ma lo si deve portare bene: solo così tutti gli altri possono vedere che la porta è aperta e anche loro possono passare”.
Un peso che la Fifa non sarà – nemmeno stavolta – costretta a motivare: nella soltanto propagandata lotta per l’inclusione, tra un proclama spot e l’altro, di cui si ricorda solo il pesante silenzio sulle taciute violazioni dei diritti sociali e civili, il giro d’introiti complessivi per questo Mondiale 2022 supera i 6,5 miliardi di dollari.
Tanto vale l’illusione del torneo sportivo della pacificazione mondiale; tanto valgono gli slogan svuotati dai fatti, perché tanto basta a riempire la pancia a chi può sempre permettersi di sciorinare belle parole e dar lezioni di civiltà senza scrupolo alcuno ma con connivenza, e mani sporche di sangue. Chi se ne frega se tutte quelle promesse si rivelano poi un buco nell’acqua, e l’ennesimo gridato tetto di cristallo rimane ancora in piedi, intonso. Parole, parole, parole: soltanto parole.
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