Un'eruzione di gioia per la festa tanto attesa dai napoletani

Non è solo la festa dei “malati del pallone” - quelli che sanno a memoria formazioni e punteggi - è la celebrazione di tutti e per tutti, da Forcella alla collina di Posillipo. È il Capodanno privato dei napoletani, una festa infinita per lo scudetto conquistato dai ragazzi di Spalletti

Un'eruzione di gioia per la festa tanto attesa dai napoletani

Napoli erutta vittoria. Dai Quartieri Spagnoli, alla Sanità a Monte di Dio: come una lava azzurra, scorrono fiumi di uomini increduli, giovanissimi in lacrime, bambini in corsa, ognuno con la sua bandiera, il suo pallone.

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Qualche tifoso ha perfino proposto di accendere lacrimogeni blu fin lassù, sul cratere del Vesuvio: permesso negato dalle autorità. Ma l'eruzione è qui sotto, nel centro storico, fatta di uomini e donne: tutti in estasi. Scoppia l'urlo d'amore della città campione.

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Nei dieci comandamenti di Napoli la scaramanzia era il primo: è andata persa anche quella regola nella irripetibile, interminabile festa. "Tre" (scudetto numero 3 dopo 33 anni) i napoletani hanno cominciato a scriverlo su tutti i muri, anche quando mancava ancora un passo, un tiro, un gol, una partita, una vittoria, un punto, perché la gioia dopo l'interminabile attesa, ha sostituito da settimane la matematica.

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Anche gli striscioni invocano il numero magico: “Ricomincio da tre”, come il film di Troisi. “O no, e che ti si pers”, dice un altro manifesto: nonno, peccato che tu, la più grande festa della città, non abbia vissuto abbastanza a lungo per vederla.

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Ma i vivi saltano anche per quelli che non ci sono più, perché qui dove è così facile morire, qualcuno è stato capace di non farlo mai. Di certo non è morto Lui. È stata la mano di Dio, è stato il divino argentino.

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Agli altari profani di Diego, sotto ogni murales del centro dedicato a Maradona, gli abitanti tributano omaggi: lo scudetto è per te, Pibe de oro, eterno numero dieci, capitano della città.

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Si torna Campioni d'Italia dopo quegli anni Novanta. Prima nel 1987, poi nel 1990, ieri Ferlaino, oggi De Laurentiis, colore sempre uguale: azzurro.

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Nastri bianchi e blu uniscono – sembra, anche simbolicamente - un palazzo all'altro, un quartiere all'altro, una strada ad ogni vicolo; è un corridoio di vessilli che ti sbattono in faccia. Lacrime e sudore: tutte sulla maglia.

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Non è solo la festa dei “malati del pallone” - quelli che analizzano prestazioni dei giocatori, sanno a memoria punti e classifiche, rispettano la liturgia della curva ogni sabato– è la celebrazione di tutti e per tutti, da Forcella alla collina di Posillipo.

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Per la vittoria qui sono tornati tutti, pure quei napoletani che per la maggior parte del tempo dimenticano di esserlo: salgono e scendono da intercity in arrivo dalle Campanie stipate a Roma, Milano e ancora più su.

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Nei vagoni hanno già sciarpe al collo, maglie in vista, sono macchie umane turchesi, si agitano in fretta da Corso Umberto verso Piazza Plebiscito e Fuorigrotta. Giorno e notte, notte e giorno.

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Ci volevano essere per ogni conto alla rovescia fino a questo Capodanno privato dei partenopei. Come se da domani un anno nuovo, un nuovo mondo, possa cominciare quaggiù, dove si ricomincia da tre.

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Per festeggiare sono arrivati da tutta Europa gli argentini, che si confondono con la maglia nazionale dello stesso colore della squadra di Spalletti, e ci sono le croci rosse e bianche della patria di Kvaratskhelia.

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A via dei Tribunali da giorni non tramonta più il sole: per il fumo dei lacrimogeni non si vede più il cielo. Non c'è spazio per camminare, ma sei obbligato a farlo: è la folla che ti trascina, diventi pure tu scia, fai parte della carne e del tufo dei rioni, dove tutto è un gioco e l'unica cosa a non esserlo è il calcio.

Ultras a piazza Bellini ballano, pogano, saltano, non li puoi fermare. Si chiama tifo, come la malattia. Il vulcano osserva muto gli abitanti che alle sue falde lo invocano, intonando un coro rubato alle squadre nemiche: “Vesuvio erutta, tutta Napoli è distrutta”. (C'è chi preferisce una variazione sul tema: "Vesuvio esulta, tutta Napoli sussulta"). I napoletani tra queste scintille hanno smesso perfino di avere paura del fuoco.

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Non si parla più: si canta e basta. “E se ne va, la capolista se ne va” oppure “O surdat 'nammurat”. Si abbraccia e si bacia. Focolai pacifici di un delirio collettivo e condiviso.

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Sotto i lampioni, di fronte a negozi che non calano la saracinesca, scoppiano feste da un marciapiede all'altro.

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Il vecchio inno “Oh mama mama mama, sai perché mi batte il corazón? Ho visto Maradona! Ho visto Maradona! We mamà, innamorato so'” nel 2023 si è trasformato in "...ho visto Osimenh...".

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Napoli è carnevale da una maschera sola: quella dell'attaccante arrivato dalla Nigeria per far tremare gli spalti meridionali quando fa rete.

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Nella città dalla memoria corta che questo giorno lo ricorderà per sempre, ogni vicolo, ogni portone, ogni cortile - ogni giorno fino a questo - è sempre stato uno stadio Maradona in miniatura per i

bambini che, anche durante la festa, continuano a giocare.

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A piazza del Gesù non smettono di dare calci alla palla quando un padre con suo figlio sulle spalle si avvicina e chiede: "Guagliò, può giocare anche lui con voi?".

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