Scoppiavano i fuochi d'artificio in piazza Duomo, pochi minuti dopo il fischio finale. Scie iridescenti che rigavano il cielo scuro, trombette a fendere l'aria della notte, gente che levava cori in mucchio. Come se l'Inter avesse vinto la finale di Champions. Eppure l'ha persa, di misura, contro il Man City di Guardiola.
Premessa: mai atto conclusivo della coppa dalle orecchie prominenti è parso più ingiusto. I nerazzurri hanno affastellato tre monumentali chance per pareggiarla, senza riuscirci. E, per tutto il tempo, hanno passato l'impressione di una squadra dentro la partita, sempre lucida, intensa, coraggiosa. Chi pensava che i terribili mancuniani di Pep l'avrebbero stritolata, aveva fatto malissimo i suoi conti.
L'Inter ha giocato a testa alta dal primo all'ultimo istante, soffrendo quando era il caso, ma risultando sempre alla pari di una squadra che francamente era nata superiore praticamente in tutto. Più soldi. Una rosa qualitativamente migliore e più profonda. Un tecnico pià esperto e vincente. Due coppe già in bacheca e l'ambizione sfrenata per il treble ad alimentare una ferocia che ha consentito di recuperare l'Arsenal in Premier e di domare i cugini dello United in FA Cup.
Una varietà di soluzioni, quella a disposizione di Pep, sinceramente imbarazzante. Il brutale norvegese, De Bruyne, Bernardo, Grealish, Rodri, solo per soffermarsi a contemplare i pilastri principali della cattedrale edificata sui petroldollari. Ma il City, che finalmente compie la fatidica impresa, certo è molto di più dell'ex squadra sfigata di Manchester che tredici anni fa veniva iniettatata di risorse sgorganti. Perché i soldi ti spingono, ma non sono tutto. Citofonare al PSG, per dire. O all'ultimo Chelsea. Guardiola ci ha messo moltissimo del suo, plasmando una creatura draconiana. Solo che stasera non s'è visto.
Appunto. L'Inter che gioca al medesimo livello di una squadra mostruosa è forse la notizia che più ha scosso tifosi, osservatori, opinionisti. Che Simone Inzaghi avesse un flirt continuativo con le coppe si era intuito da un pezzo, ma qui la posta in palio sembrava eccessivamente fuori portata. Invece la Beneamata, pur infilzata ingiustamente, ha annullato quella siderale distanza. C'è riuscita restando fedele al suo progetto. Senza disunirsi. Ribalda forse, ma anche tecnica e tenace. Una pastura di qualità che hanno sorpreso in positivo. La gente l'ha capito. Far sfigurare per buoni tratti questo City equivale ad una coppa sollevata.
E, se queste sono le premesse, il futuro si preannuncia limpido. Perché la vision calcistica di Inzaghi si è sovente materializzata. Anche sabato sera, pure se non è bastato. Ora si tratta di renderla più continuativa, specie in campionato, giardino che quest'anno ha fatto sanguinare, al netto del terzo posto.
Quel che resta in fondo alle pupille è il film limpido di un gruppo pronto costantemente ad aiutarsi. Con fiducia, forza di volontà e talento. E con gli errori che, inevitabili, restano disseminati lungo l'intricato cammino che conduce alla crescita. Ma stasera il passaggio mancato di Lautaro, il gol sbagliato da Lukaku, la traversa sfortunata di Dimarco e tutti gli altri trascurabili particolari che hanno determinato l'insuccesso, non sono un fallimento. Solo una scala più lunga verso la migliore versione di sé.
Perché esistono tanti modi per perdere. Quello dell'Inter, stasera, è quanto di più vicino possibile ad una vittoria.
Per questo è giusto far sfrigolare comunque i fuochi contro il cielo
tiepido di una notte di giugno milanese. Stasera è una carezza che nasce da un pugno chiuso. Un silenzioso e futuribile trionfo, racchiuso tra le pieghe della sconfitta. Per ora non la vedi, ma la puoi sentire.
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