Ibrahimovic: "Non sono la babysitter dei miei giocatori, chiedo loro il 200%"

In una lunga intervista rilasciata a The Athletic lo svedese spazia in lungo e in largo sul mondo rossonero: dai suoi giocatori, passando per il figlio e il no secco alla carriera da allenatore, con qualche cenno anche al passato da calciatore

Ibrahimovic: "Non sono la babysitter dei miei giocatori, chiedo loro il 200%"
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È uno Zlatan Ibrahimovic a 360° quello che si racconta a The Athletic, in una intervista concessa durante i 15 giorni di tournée americana del Milan. Lo svedese, nonostante il passare degli anni e il cambio di veste, da calciatore a dirigente, è sempre esuberante e non le manda di certo a dire. Lo stile di Ibra, col suo modo di fare da ragazzo cattivo irriverente, è rimasto impresso anche durante l'intervista rilasciata, nella quale Zlatan ha tracciato un bilancio sul presente, partendo dal ruolo di estrema vicinanza con la squadra che ricopre in società, con un tuffo nei ricordi del passato e un occhio proiettato al futuro. Prima di entrare nel profondo delle sue dichiarazioni, Ibrahimovic ha voluto dapprima parlare di se stesso, riducendo al minimo le possibilità di errore anche nella nuova veste: "Debolezze? No, perché se sono obiettivo vado fino in fondo e poi o riesci o fallisci. È una probabilità al 50 per cento? No, nel mio caso è 99 su 1. Faccio di tutto per avere successo. È tutto mentale, so quanto sono bravo. Anzi, ancora più in alto: 99,9%".

La prima stoccata è stata rivolta ai giocatori, immediatamente allertati del fatto che la presenza di Ibra non deve essere scambiata per un aiuto costante o una spalla: "Non sono una babysitter. I miei giocatori sono adulti e devono assumersi le responsabilità. Devono dare il 200% anche quando non ci sono. Ho voce in capitolo in molte categorie per portare risultati e aumentare il valore, il tutto con l'ambizione di vincere". Lo Zlatan-pensiero è piuttosto chiaro: in un club come il Milan non si scende in campo per partecipare ma per vincere.

Incalzato sul nuovo ruolo da dirigente, Ibra ha le idee piuttosto chiare su ciò che non sarà nel prossimo futuro, ossia un allenatore: "Allenatore? No. Vedi i miei capelli grigi? Figuriamoci dopo una settimana da allenatore. La vita di un allenatore dura fino a 12 ore al giorno, non hai assolutamente tempo libero. Il mio ruolo è connettere tutto, essere un leader dall’alto e assicurarsi che la struttura e l’organizzazione funzionino. Per tenere tutti sull'attenti". Possibile, dunque, vederlo in altre vesti ma quella del tecnico, nonostante l'apprezzamento espresso per tecnici come Capello o Mourinho: "Chi mi ha fornito leadership? Alla Juventus avevo Fabio Capello, mi ha distrutto, ma allo stesso tempo mi ha costruito. Mourinho? José era una macchina. Lui tira fuori il meglio da te. Lui è quella persona: manipolatore. Sa come entrarti nella testa. Lui sa come trattarti, indipendentemente dal tuo livello. Mi ha ricordato Capello, ma una versione più recente. Disciplina. Duro. Intenso. Non i tipi morbidi. Questo è quello che mi piace. Ricordi da dove vengo? La mia famiglia è dura".

Lo svedese ha poi voluto parlare del figlio Maximilian che sta cercando di calcare le sue stesse orme. Il giovane classe 2006 ha firmato il suo primo contratto da professionista e, a breve, esordirà con l'Under 23 nel prossimo campionato di Serie C: "Non è facile per lui perché, ovviamente, suo padre è quello che è, porta un cognome pesante. Ovunque vada, sarà sempre paragonato. Ma al Milan, nel mio ruolo, non lo vedo diverso dagli altri. Non lo giudico come se fosse mio figlio, lo giudico come giocatore, come giudico tutti gli altri. Deve imparare, deve lavorare e deve guadagnare. Poi quello che succede, succede. È forte mentalmente. La gente pensa che il calcio sia facile e che tutti arrivino, ma non è così”.

La chiosa finale, piuttosto romantica, sul ritorno al Milan nel 2020 dopo la parentesi fra il 2010 e il 2012: "Quando sono venuto la seconda volta, si trattava più di dare che di prendere. Volevo aprire la strada a una nuova generazione. Tu sei l’esempio, dicendo: 'Ascolta, è così che funziona'. Quando sei a Milano è l’élite dell’élite: pressioni, pretese, obblighi.

Bisogna assumersi la responsabilità, diventare uomo, perché un giocatore non conta solo il campo, ma anche la persona fuori. Ero il punto di riferimento, non avevo un ego al riguardo. Ero come una specie di angelo custode". L'Ibra dirigente ha le idee piuttosto chiare. Forse, ancora più cristalline rispetto a quando era un calciatore.

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