Marzio G. Mian
Una nuvola di fumo s'aggira su Washington, il «fattore marijuana» potrebbe sballare gli equilibri nell'Amministrazione, negli schieramenti e nel rapporto tra governo federale e stati, soprattutto quegli otto che hanno legalizzato l'erba a uso ricreativo, ultimo arrivato la California, che oltre a essere il più esteso degli Stati Uniti è il paradiso artificiale mondiale, giro d'affari sui 10 miliardi di dollari l'anno. Dollari appunto, e come da tradizione non puzzano. In questi giorni è uscita una ricerca di una prestigiosa agenzia indipendente, New Frontier Data, secondo cui la legalizzazione della cannabis in tutti gli stati porterebbe entrate fiscali per 132 miliardi di dollari e oltre un milione di posti di lavoro nei prossimi dieci anni. Viceversa, secondo una recente proiezione del Bureau of Labour Statistics, entro il 2024 l'industria americana è destinata a perdere 814 mila posti di lavoro, il terziario circa 50mila e il settore pubblico altri 380 mila.
«In sostanza quello della marijuana al momento è l'unico driver economico, un'irrinunciabile risorsa di capitali e occupazione», dice al Giornale Giadha Aguirre De Carcer, fondatore di New Frontier Data. Sono già 29 gli stati che hanno legalizzato la cannabis per uso medico o ricreativo, proliferano le aziende che la coltivano, la lavorano, la smerciano, è in pieno sviluppo un indotto che va dall'università, all'industria meccanica, al marketing, alla finanza. Per il Colorado, ad esempio, quella della canna è ormai un'economia consolidata e cruciale quanto il mais nell'Iowa. Resta tuttavia ancora un mondo semiclandestino, nel senso che è un mercato schizofrenico: anche se legale in molti stati, deve però sottostare alle leggi federali di segno opposto, dalle norme antidroga a quelle dell'antiriciclaggio, basti pensare che un simile giro di miliardi è quasi tutto cash, perché il sistema bancario vieta l'apertura di conti legati al business dell'erba.
In questo contesto è quindi arrivato come una bomba politica il contrordine del ministro della Giustizia Jeff Sessions: con un colpo di spugna ha cancellato le garanzie legislative dell'Amministrazione Obama un accordo di «non interferenza» che ha favorito la legalizzazione della cannabis in molti stati - e ha invece fornito un nuovo quadro giuridico ai procuratori per consentire loro di applicare la legge federale ovunque, magari nell'ambito della lotta al crimine organizzato. «Rifiuto l'idea che l'America possa diventare un posto migliore se si vende marijuana in ogni angolo del Paese. A me fa schifo quasi quanto l'eroina», ha detto quando ha diffuso il provvedimento. In teoria l'erba potrebbe tornare fuorilegge anche in quegli stati dove è ormai un asset economico e dove, anzi, stanno progettando un maggiore sviluppo e una totale regolamentazione.
Sembrerebbe una decisione ultraconservatrice, presa per compiacere la linea del presidente. Invece le cose sono più complicate. Intanto i rapporti tra Trump e Sessions sono ai minimi da quando il ministro aveva deciso di astenersi dalle indagini sul Russiagate dopo il licenziamento di James Comey, scelta che ha di fatto imposto il procuratore speciale Mueller a capo dell'inchiesta. Molti repubblicani fedeli a Trump spingono perché Sessions lasci l'incarico, soprattutto ora che il Russiagate si sta pericolosamente avvicinando alla famiglia presidenziale, sperando che a sostituirlo venga chiamato il fidato Rudolph Giuliani. Infatti i maggiori sostenitori di Sessions (sul fronte giudiziario) sono paradossalmente i democratici e il ministro è stato l'unico escluso dal vertice ristretto convocato da Trump a Camp David per decidere le strategie per le elezioni di medio termine di quest'anno. Ecco che allora l'offensiva proibizionista del General Attorney sulla marijuana viene letta come una manovra per mettere ulteriormente in difficoltà Trump, il quale in campagna elettorale aveva giudicato la questione «di esclusiva pertinenza degli Stati», che è poi una dottrina decentralista tradizionalmente repubblicana.
«Difficilmente i procuratori approfitteranno del via libera di Sessions», dice Lewis Kosti, consulente di molte aziende legate alla cannabis economy in Colorado, «perché se vogliono essere rieletti non si metteranno contro il vasto consenso bipartisan che la liberalizzazione incontra in stati come il mio». Tuttavia le ripercussioni saranno enormi: «Verranno bloccati gli investimenti e tutto il settore sarà paralizzato da questa scelta scellerata in attesa di sviluppi. Si teme il crackdown alla prima inchiesta federale della Dea». In Colorado i numeri sono da grande industria. Quasi un miliardo e mezzo di dollari di entrate fiscali l'anno, di cui 617 milioni rimangono nelle casse dello Stato che reinveste le tasse prodotte dall'erba in nuove scuole, nuove assunzioni nelle forze dell'ordine e case popolari. Sono circa 50mila le aziende legate al business della cannabis e potrebbero vedere andare in malora anni di lavoro e centinaia di milioni di investimenti per stare nelle regole. «Aziende consolidate e quotate come la mia, una delle più importanti a livello nazionale nella produzione di marijuana per uso medico, rischia la chiusura o la clandestinità», dice Andy Williams amministratore delegato di Medicine Man Denver, che il giorno dell'annuncio di Sessions ha perso quasi il 50 per cento in borsa. Williams offre tuttavia anche altri scenari: «In un certo senso siamo più forti dell'industria delle armi, perché il sostegno politico è trasversale e nessun presidente può accettare di perdere entrate che possono contribuire massicciamente a sanare il deficit federale. La decisione di Sessions avrà una ripercussione enorme nelle elezioni di medio termine, ecco perché Trump lo caccerà molto presto». E ci sarà un benefico effetto-Sessions che, secondo Williams, potrebbe addirittura portare a un confronto nel Congresso e a una totale legalizzazione in tutti gli Stati: «Bisogna tener presente che non è più questione ideologica, ma solo economica. Tra i maggiori investitori del settore ci sono molti sostenitori di Trump, come Todd Mitchem oppure Morgan Paxhie della Poseidon Asset Management, la più grande compagnia di consulenza nella cannabis economy».
Non si tratta di figli dei figli dei fiori, di reduci hippie dalle comuni, ma di una nuova generazione di coltivatori professionisti, concentrati in distretti industriali, come accade alla periferia nord di Denver, detta anche «weed valley», controllata da una selva di telecamere a circuito chiuso. Qui si accumulano letteralmente montagne di dollari, che però le banche rifiutano per non correre rischi poiché le transazioni di denaro prodotto dalla marijuana, esattamente come quello derivato dallo spaccio della cocaina, sono soggette alle leggi federali antiriciclaggio anche negli stati cannabis-free. Costringendo così gli imprenditori a stivare sacchi di denaro nelle loro aziende, oppure a circolare con borsoni in cuoio gonfi di verdoni e fabbricati ad hoc in Messico, dove hanno esperienza in questo genere di necessità.
Un'eccezione che sta facendo scuola è una piccola banca fuorilegge proprio nel distretto a Nord di Denver, la Safe Harbor Private Banking, «porto sicuro» appunto per i paperoni della «maria», terrorizzati dai rapinatori: un miliardo di dollari di depositi solo nel 2017, per ogni centomila dollari circa 500 di commissioni per la banca. Siccome l'erba del vicino fa sempre gola, stavano per aprire una filiale anche nella confinante California appena entrata nel club degli Stati «liberati», poi è arrivato Torquemada Sessions e il piano è andato in fumo.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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