Nella storia dei partiti dell’Italia repubblicana,
la vicenda dell’indomito guerriero di Gemonio - e della Lega Nord-
passerà come una grande impresa politica. Sul finire degli anni
Settanta, quando incontrò Bruno Salvadori e si convinse della
concretezza del progetto federale, c’era un Nord molto sofferente. Un
Nord - con il suo popolo - che per trent’anni aveva conferito una
delega in bianco ai partiti anticomunisti della Prima repubblica, a
cominciare dalla Dc, per la rappresentanza e la tutela dei propri
interessi politici. E nel frattempo, con uno spirito quasi calvinista
si era dedicato senza riserve al lavoro e alla produttività, che
garantivano benessere per sé e i dipendenti. La valle del Po si era
imposta come una delle aree più sviluppate, produttive e ricche,
dell’intera Europa.
Poi, il drammatico risveglio. Quei
partiti non avevano rappresentato né tutelato un bel niente. Negli anni
Ottanta il debito pubblico del Paese era schizzato alle stelle. E Roma,
per continuare a sostenere le politiche assistenziali - diffusamente
clientelari e che non avevano mai prodotto sviluppo - a favore del
Mezzogiorno, metteva le mani in tasca al popolo del Nord. La Questione
settentrionale speculare rispetto a quella meridionale - aveva così
assunto delle proporzioni non più eludibili dal punto di vista
politico. L’unico a intuirlo fu Umberto Bossi.
Con poche risorse e limitati mezzise non una scassatissima Citroën -Bossi cominciò a riempire di scritte il Varesotto. E poi a percorrere in lungo e in largo la Padania per convocare le prime riunioni e tenere i primi comizi. Per convincere il popolo del Nord che lui e la Lega avrebbero rappresentato, tutelato e difeso gli interessi economici e produttivi, sociali e culturali, dei padani. All’inizio tra l’indifferenza e lo scetticismo generale; poi con crescenti adesioni e consensi.
Dormiva sulle panchine, perché i soldi
dell’albergo preferiva utilizzarli per i manifesti. Quelli della gallina
padana che cova uova d’oro in un cesto sorretto da una matrona
romana: l’idea - e anche il primo disegno del manifesto - fu sua.
Comizi e incontri dappertutto: dalle vallate della Bergamasca a quelle
del Bresciano. Nelle bettole dove si beve il «pirlo» o la «bicicletta»,
il campari col bianco. Dove si parla in dialetto e si gioca alla
morra. Pane al pane, vino al vino. La volgarità, l’insulto
sprezzante,l’ironia pesante,la battutaccia da osteria fanno parte del
suo vocabolario politico. Da sempre. E lo
rendono davvero unico, anomalo. Niente salotti, tanto meno quelli
radical. Solo ambienti popolari. Perché nella provincia padana si
trova il popolo del Nord che lavora e che produce. La Padania «vacca
da mungere»: quante volte l’ha detto nei suoi comizi? Per dimostrare
che chi vuole governare il Paese deve fare i conti con il Nord, che
vuole federalismo. Poi è arrivata l’elaborazione teorica di Gianfranco
Miglio e dei padri nobili del federalismo integrale. Robuste radici.
Oggi le cose non sono cambiate. Sarà ancora il Nord ( Piemonte,
Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna) a sobbarcarsi il peso maggiore -
circa due terzi - della manovra straordinaria approvata dal governo
prima di Ferragosto. Perché ogni anno copre circa il settanta per cento
del Pil e stacca un assegno a beneficio del resto del Paese di circa
60 miliardi di euro. Perciò fa bene- anche se è un ministro della
Repubblica - a togliersi la camicia.
A restare ancora in canottiera,
come ai vecchi tempi. E con qualche definizione colorita, qualche
insulto di troppo. Perché Umberto Bossi incarna l’anima popolare del
grande Nord. E gli ha dato una prospettiva politica.
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