Un bagno nello stagno sotto la pioggia (Feltrinelli, pagg. 494, euro 24), il titolo del nuovo libro di George Saunders, è una citazione da L'uva spina di Cechov. Infatti questa non è una raccolta di racconti (genere in cui il texano è un maestro) e non è un romanzo (genere in cui, con Lincoln nel Bardo, ha vinto il Man Booker Prize nel 2017): è una specie di saggio «In cui quattro scrittori russi tengono una master class sulla scrittura, la lettura e la vita». Un distillato del corso che Saunders tiene, da vent'anni, alla Syracuse University: sette racconti di Cechov, Gogol, Turgenev e Tolstoj, analizzati, rivissuti, interrogati e fatti amare con tutta la passione di un grande scrittore verso dei giganti, sulle cui spalle, come sempre, tentiamo di guardare lontano (come suggerì Newton, che certo non era un nano).
L'intero libro è sui racconti: qual è la loro peculiarità nella letteratura?
«La brevità, e il modo in cui essa influenza tutte le qualità estetiche della storia. Il racconto, per me, è come una barzelletta: solo alla fine sappiamo se ha funzionato».
Queste riflessioni sui racconti che cosa ci insegnano?
«Lo storytelling è ciò che gli esseri umani fanno, anche a livello neurologico: costruiamo una bozza grezza della realtà, basata sulla nostra esperienza passata, che poi viene revisionata in base agli impulsi sensoriali. E questo è, anche, il modo in cui commettiamo quei comuni e umani errori di proiezione, ovvero attraverso uno storytelling inadeguato, e/o credendo troppo rigidamente a quelle storie che la mente costantemente si inventa, per consentirci di sopravvivere. Quindi, quando parliamo del romanzo, parliamo davvero di come gli esseri umani comprendono il mondo e, anche, di come potremmo fare pratica nel compito importante di immaginarlo più pienamente e accuratamente e, perciò, in modo più compassionevole».
Perciò scrive che leggere un racconto è leggere il mondo?
«Nella vita reale, in una situazione nuova iniziamo subito a fare proiezioni su di essa, per esempio pensiamo: a quella persona non piaccio. Ma queste proiezioni non sempre sono precise, anzi; perciò migliorare nell'identificare le nostre proiezioni, o supposizioni, o aspettative è qualcosa di molto potente. Leggere e analizzare le storie ci aiuta proprio a fare questo, perché è esattamente così che le storie funzionano: facendo sorgere in noi delle proiezioni e poi raffinandole. Siamo trasportati in un viaggio e, alla fine, ci viene insegnato qualcosa di profondo su come funziona la nostra mente».
Perché ha scelto proprio degli autori russi dell'Ottocento? E non Hemingway, per esempio?
«Ho scritto di Hemingway nella mia newsletter su Substack, e ho insegnato letteratura americana alla Syracuse; ma, per qualche ragione, il mio corso sui russi è sempre andato meglio. C'è qualcosa, nella semplice propensione etico-morale di questi grandi scrittori russi, che mi attrae. Anche se non so perché».
E perché proprio questi quattro?
«In sei mesi studiamo circa quaranta storie, di una quindicina di autori. Qui ho sfidato me stesso nel proporre le storie migliori per insegnare: questi sette racconti hanno sempre provocato una reazione forte nei miei studenti; e caso vuole che siano solo di quattro autori, Cechov, Turgenev, Tolstoj e Gogol».
Che cos'è la «resistenza calma» che trasmettono?
«Beh, la mia convinzione è che, nel momento in cui fissiamo la nostra attenzione sugli esseri umani in una storia, su ciò che fanno e come e perché lo fanno, ci spostiamo leggermente nella direzione di una maggiore pazienza e un maggiore amore verso le persone. E questo ci rende, probabilmente, sostenitori più forti della moralità - della tolleranza, della pazienza e della comprensione - e ci rende più sicuri della nostra capacità di attendere un momento prima di precipitarci a dare giudizi facili... Tutto questo è parte della resistenza, l'opporsi a quelle forze violente e anti-umane che sono così dilaganti in quest'epoca e, beh, in tutte le epoche, se vogliamo essere onesti».
Quando ha cominciato a leggere i russi?
«Ho letto Delitto e castigo un'estate, durante il college, mentre vivevo in New Mexico e lavoravo ai pozzi di petrolio. In quel periodo vidi anche il Dottor Zivago in tv e mi innamorai sia di Julie Christie, sia dell'idea di scrivere poesie in una dacia, mentre i lupi ululano in lontananza».
Perché L'uva spina di Cechov le ha cambiato la vita?
«Come racconto nel libro, ero uno studente all'università quando ho sentito il mio mentore, Tobias Wolff, leggere la piccola trilogia di Cechov: teneva l'intera stanza in pugno, le persone ridevano, gridavano... Era così potente. E io ho pensato: Sì. È questo che voglio fare nella mia vita, scrivere storie e coinvolgere le persone in questo modo».
Come possono i racconti, e la letteratura, cambiarci la vita?
«Credo che ciascuno possa rispondere da sé, ricordando come ci siamo sentiti dopo l'ultima volta che abbiamo letto una bellissima storia. Questo è davvero il punto centrale del libro: la letteratura è un processo. Essa provoca dei cambiamenti specifici e osservabili nel nostro stato mentale e l'analisi consiste nel notare e nell'imparare ad articolare meglio quei cambiamenti».
Cita una frase di Tolstoj: «Lo scrittore non è la persona». Che significa?
«Uno scrittore revisiona sempre quello che ha scritto. In questo processo, credo - e ho sperimentato - che aspetti più profondi e saggi di sé inizino a manifestarsi. E la revisione è proprio questo: lavorare a un testo per eliminare quanta più stupidità e pigrizia possibili... Così, quando leggiamo il lavoro finito, e meraviglioso, di uno scrittore, cogliamo anche un barlume di quella persona al suo meglio - anzi, cogliamo un barlume di quella persona che coglie un barlume di sé stessa al suo meglio».
Tutto questo si collega alla «saggezza sovrapersonale» della letteratura?
«Questa è una citazione di Kundera. Per me, significa che la saggezza che viene dalla revisione del testo è un tipo di saggezza universale, che può arrivare solo attraverso quel processo. È solo un'idea, ma la trovo piena di speranza. Implica che ciascuno di noi sia una molteplicità di persone: l'arte, quindi, è un modo per spingerci a manifestarci, brevemente, come versioni più pazienti, curiose, compassionevoli, spiritose, oneste e affascinanti di noi stessi».
La letteratura, scrive, non può davvero cambiare il mondo: dopo il periodo splendente dell'Ottocento russo sono arrivati gli anni sanguinosi della Rivoluzione.
«Credo che la letteratura non estirpi i grandi problemi, e diciamocelo: niente, nella storia umana, è mai riuscito a farlo. Ma essa ci rasserena. Sul nostro piccolo livello umano ci ricorda, quasi con sacralità, che non tutto è perduto. Leggere opere di letteratura ed esserne infinitesimamente cambiati può essere Una cosa piccola ma buona, per usare il titolo di un racconto straordinario di Raymond Carver».
Scrivere, dice, è una sfida materiale, una scelta continua, riga dopo riga. Come avviene questa scelta e quando sa, alla fine, che quella è la frase giusta?
«La scelta avviene durante la revisione. Per me, si tratta di un processo di lettura e rilettura del pezzo, molte centinaia di volte, approntando cambiamenti piccoli o grandi ogni volta, in base al mio gusto. Col tempo, la storia inizia a dirmi che cosa voglia essere, proprio per l'accumulo di tutte quelle decisioni. E tutto quanto - incluso il finale - è a sensazione: lo leggo e... ci convivo, oppure sono un po' eccitato o addirittura orgoglioso di esso. La vera abilità è imparare a distinguere tra il fatto che veramente piaccia, o che piaccia quasi del tutto».
Quale tipo di scrittore sognava di essere?
«In origine, volevo essere Hemingway. Poi, quando ho imparato di più sulla scrittura e su ciò che rende buona una storia, ho iniziato a voler diventare il genere di scrittore che riesce a tenere conto di tutto, che può guardare un gruppo di esseri umani e trovare, in essi, qualcosa da amare. Voglio essere quel genere di scrittore il cui l'amore per la vita sia evidente in ogni pagina».
E quando ha scritto il suo primo racconto, come ha capito che era quello giusto?
«Beh, i primi racconti non erano giusti affatto, e lo capivo, semplicemente paragonandoli a quelli dei maestri. Più tardi, quando alla fine ho scritto una storia che mi piaceva... ho percepito due cose: la prima era che non fosse granché, in realtà, rispetto alle grandi storie; ma anche, seconda cosa, che c'era davvero qualcosa di me lì dentro.
Si sentiva che, nonostante tutti i suoi difetti, era qualcosa che solo io avrei potuto fare: c'erano la mia esperienza e i miei difetti e le mie paure e, anche, un po' del mio fascino, il modo in cui mi muovo nel mondo reale, un po' irriverente, sincero e divertente. Perciò, la mia sensazione è stata più o meno questa: Beh, non è perfetto, ma è mio. E quello è il punto da cui dobbiamo partire come artisti, credo».
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