CARA ONU TI SPIEGO LA GIUSTIZIA ALL’ITALIANA

Illustre dr. Leandro Despouy, relatore sull’indipendenza dei giudici e degli avvocati alle Nazioni Unite: Ella forse si stupirà nel ricevere una seconda lettera dall’Italia nell’arco di una manciata di giorni. La prima le fu inviata dall’Associazione nazionale magistrati il 19 novembre, e conteneva una lagnanza che da noi è un disco rotto: lamentava che l’indipendenza dei giudici possa esser ridotta per azione politica. Ora: questa Associazione è un sindacato unico di magistrati (vi aderisce il 95 per cento di essi) e già questo dovrebbe indurla a riflettere sulla liberalità di un ordine-potere che è sostanzialmente l’unico a non esser stato modernizzato sin dal Dopoguerra.
No, non si vuole generalizzare: ben sappiamo che i magistrati non sono tutti uguali e che la maggioranza fa il proprio lavoro e vive relativamente nell’ombra; ma altri, forse non più di due o trecento, tendono di fatto a sbandierare la succitata indipendenza mettendola in contrapposizione agli altri poteri. L’indipendenza, nelle loro parole, ha il suono di una pretesa intangibilità: spesso sono volti noti alle telecamere, popolari tra giornalisti che ne sono quasi addetti stampa, amici di parlamentari o di giudici che parlamentari frattanto lo sono diventati.
La Sua commissione, illustre dr. Despouy, ha svolto un’approfondita missione italiana nel 2002, e non ha capito una mazza: ma non stupisce. La nostra stampa neppure si accorse della Vostra venuta, e questo per due ragioni emblematiche: la prima, Ella saprà, è che in Italia vige un regime dittatoriale, la seconda è che non abbiamo più speranza che uno straniero possa capire la nostra Giustizia. Con quale fegato, ora, potremmo tentare di spiegarle il caso De Magistris? E le procure che si perseguitano una con l’altra? Certe starlette in toga che vanno a parlare in televisione prima che nelle sedi istituzionali? Ha capito bene, in televisione: e questo spesso non in virtù di loro successi giudiziari, ma prescindendo da essi. L’unica separazione delle carriere, in Italia, è quella che divide l’eroismo di chi ottiene delle condanne dal martirio di chi ottiene delle assoluzioni. Questo, va da sé, mentre la nostra giustizia resta la più sfasciata d’Occidente. Non ci fraintenda: legga tutte le lettere che vuole, la Magistratura è ben giusto che si esprima: dovrebbe interloquire di continuo circa i nodi che paralizzano il Paese, interloquire ossia circa le leggi che gli stessi magistrati dovrebbero applicare per scioglierli. La parte più responsabile delle toghe sa bene che il Paese è stufo anche del magistrato sospetto scansafatiche, che le toghe sono in picchiata in tutti i sondaggi, che i problemi della sicurezza hanno un primato che può rendere intollerabile ogni consorteria di casta: il potere giudiziario ormai è visto come una parte consistente di qualcosa che non funziona. Non di questo le ha parlato la lettera dell’Associazione magistrati, ma di questo soffre il cittadino medio coi suoi problemi e le sue percezioni.
Ora, una rinnovata severità del Consiglio Superiore della Magistratura (Csm) sta cercando di punire celermente certi protagonismi mediatici, ma anche su questo sappiamo che le possibilità ch’Ella ci capisca restano risibili. Il mondo non non ha mai ben capito che cosa sia il nostro Csm. Bene che vada viene visto come un organismo con delega a problemi di categoria, mentre invece è un parlamentino che in passato è intervenuto su tutto, dalla guerra ai problemi sociali, oltre a reclamare leggi ad hoc, rilanciare difese corporativistiche, censurare questo e quello, il tutto con posture e atteggiamenti che vanno molto al di là dei propositi auspicati originariamente dalle leggi e dalla nostra Costituzione. La nostra giustizia, sappiamo, non somiglia minimamente a quella di nessun altro Paese democratico: Ella ha dunque tutti i diritti di non comprendere un assetto, il nostro, senza eguali. Da noi, in realtà, le garanzie di indipendenza dei magistrati sono superiori a quelle di tutti gli altri Paesi; le gerarchie, grazie all’avanzamento automatico della carriera, sono state smantellate; giudici e pubblici ministeri, rispetto ai loro colleghi stranieri, sono soggetti a condizionamenti istituzionali pressoché inesistenti, non vi è quindi nessun controllo da parte del potere esecutivo o legislativo come accade per esempio in Francia o in Germania; lo stesso reclutamento è sottratto a qualsiasi intervento politico. In Italia, altro aspetto unico nel suo genere, si diventa magistrati appena laureati e senza alcuna esperienza che non sia un semplice tirocinio: per decidere della libertà altrui basta vincere un concorso.
Nei principali Paesi occidentali ci sono sempre legami istituzionali (magari blandi, ma ci sono) tra pubblico ministero e sistema politico, da noi invece di strumenti istituzionali che orientino l’esercizio dell’azione penale non ce ne sono. Lo status dei pubblici ministeri è uguale a quello dei magistrati giudicanti: formano uno stesso corpo. Eccetera: non abbiamo la pretesa di spiegarle tutta la giustizia italiana con una lettera, per quanto avrà compreso più da questa che dalla pomposa missiva dell’Associazione magistrati: che resta un sindacato, e si sa, i sindacati tendono a opporsi ai cambiamenti, a difendere i propri privilegi.
È anche per questo che non si è mai riusciti a fare una vera riforma della Giustizia.

Voglia accogliere, nel salutarLa, il nostro rincrescimento per il disguido della nostra lettera precedente: Ella ci aveva chiesto notizie di quel tale, Antonio Di Pietro, e le avevamo spiegato come è potuto diventare un politico. Ella si chiedeva, semmai, come è potuto diventare un magistrato. Rimedieremo.

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