Cari ministri attenti agli slogan

La caduta dei mercati borsistici dopo l’annuncio di Trichet di un possibile aumento dei tassi di interesse per contrastare l'impennata inflazionistica nella zona euro e i dati negativi della produzione industriale tedesca ripropongono drammaticamente il tema della crescita. Il rischio del nostro governo è che vada fuori strada grazie al frastuono degli applausi per i proclami ogni giorno sempre più ridondanti. A cominciare dall'inutile reato di clandestinità che ingolferebbe carceri e tribunali senza aiutare le espulsioni, per finire ai settori economici. Non ci fa velo la stima e l'amicizia per Tremonti, Sacconi e Brunetta nel dire che siamo a disagio quando sentiamo ogni giorno annunci di rivoluzioni ricchi di slogan pubblicitari. Via i fannulloni e chi non si trasferisce verrà licenziato (Brunetta), le regioni che sfondano i conti sanitari non solo verranno commissariate ma i responsabili diventeranno ineleggibili (Sacconi), avanti tutta con la Robin Tax (Tremonti) per togliere soldi ai petrolieri e distribuirli ai poveri. E giù applausi da stadio. Forse siamo un po' antiquati ma in politica il tifo non ci convince. Non abbiamo naturalmente la presunzione di dare consigli, ma qualche considerazione va fatta. A Brunetta, ad esempio, vorremmo ricordare che la mobilità dei pubblici dipendenti, elemento essenziale per una maggiore efficienza dell'amministrazione pubblica, più che di minacce ha bisogno di una rapida offensiva di persuasione. Nel periodo '88-'93 oltre diecimila dipendenti cambiarono regione ed amministrazione su base volontaria cioè senza minacce o incentivi. Un primo positivo esperimento bloccato poi per responsabilità bipartisan a metà degli anni novanta. Comprendiamo e condividiamo poi l'ansia del ministro Sacconi dinanzi ad una spesa sanitaria che cresce in quantità ma non sempre in qualità. Si possono certamente ridurre altri trasferimenti statali per compensare le maggiori spese nel settore e/o avviare le procedure di scioglimento delle regioni o sostituire i dirigenti che non rispettano i limiti del budget (una norma, quest'ultima già esistente). Quel che non si può fare è dichiarare ineleggibili per inadeguatezza amministrativa e politica le persone. L'elettorato passivo è un diritto costituzionale e in uno Stato di diritto solo l'autorità giudiziaria lo può togliere così come solo il cittadino elettore può eleggere o bocciare il candidato. Ogni altra strada è un nuovo autoritarismo. Anche Giulio Tremonti lancia «messaggi popolari» come quello di togliere ai ricchi, nel caso specifico ai petrolieri, per darli ai meno abbienti. Chi mai potrebbe non essere d'accordo? Chi governa, però deve scegliere strade praticabili. Ci sembra difficile infatti (ma siamo sempre pronti a fare ammenda) poter tassare in maniera differenziata gli utili di una società petrolifera rispetto ad utili realizzati da società operanti in altri settori. Si possono aumentare le royalties sulla produzione ma il gettito recuperato sarebbe ben poca cosa a fronte del rischio che, in regime di libero mercato, questi nuovi oneri si trasferiscano almeno in parte sui prezzi alla pompa. D'altro canto davvero non si capisce perché lo Stato che in 12 mesi ha incassato alcuni miliardi di euro in più per l'aumento del prezzo del barile non riduca le accise restituendo così alle famiglie e alle imprese ciò che a loro è stato tolto per le decisioni dei Paesi produttori di petrolio. Avremmo, oltretutto, anche un evidente effetto antiinflattivo. E per ultimo un accenno sulla riduzione della spesa pubblica. Cosa sacrosanta che richiede però un'azione pluriennale perché la spesa pubblica è in buona parte figlia di norme precise senza togliere le quali non accadrà mai nulla. Se ci si limita a ridurre gli stanziamenti infatti si mettono in difficoltà solo funzioni fondamentali dello Stato (forze dell'ordine, vigili del fuoco, ospedali e via di questo passo). Vediamo aggirarsi nei corridoi del mitico palazzo di via XX Settembre il vecchio fantasma del decreto taglia-spese del 2002 che limitò di poco la spesa pubblica per alcuni mesi ottenendo, poi, un rimbalzo formidabile nell'anno successivo. La vera emergenza resta dunque la crescita. Di essa si parla poco e si razzola male riducendo come è stato fatto nel decreto Ici, i fondi per gli investimenti pubblici e per la competitività delle imprese. Possiamo sbagliare, naturalmente, ma non è questa la strada.

La riduzione della spesa non garantisce automaticamente la ripresa economica mentre una crescita decisamente più sostenuta aiuta la necessaria riduzione della spesa corrente. Insomma l'esatto contrario di ciò che si è fatto negli ultimi 12 anni. E davvero non possiamo più sbagliare.
Geronimo
ilgeronimo@tiscali.it

Commenti
Disclaimer
I commenti saranno accettati:
  • dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
  • sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.
Accedi
ilGiornale.it Logo Ricarica