«La cosa più importante non è che cosa, ma a chi la diamo. Mi segui?».
Biagio annuì azionando il capoccione, sforzandosi di assumere un'espressione complice, l'espressione di quello che ha capito. Ma non aveva capito.
«Mi sa che non hai capito», riprese Attilio. «Spiego meglio (e si accese la quarta sigaretta post-prandiale). Se noi dessimo un racconto di Carver all'«Osservatore Romano» oppure una poesia di Penna a «Playboy», faremmo la scelta giusta?».
Biagio, che non aveva mai sentito nominare né Carver né tantomeno Penna («L'Osservatore Romano», invece, l'aveva sì sentito nominare, ma non ricordava più quando e a che proposito...), intuì di dover dire «no». E disse: «Certo che no!».
«Molto bene. E perché no?».
«Perché... perché saremmo... come dire... fuori target». Frequentando gente come Attilio, Biagio aveva imparato che quando una cosa non va bene è «fuori target», e che «come dire» è l'introduzione più efficace a ogni presa di posizione.
«Bravo il mio testone. Visto che ho fatto bene a farti studiare, eh?». E poi, terminata la risata catarrosa, aspirando una profonda boccata ed espirandola con gli occhi fissi sulla natura morta olandese del Seicento, pezzo taroccato del suo ufficio: «Allora facciamo un passo in avanti. Ti chiedo: è più facile scegliere la testata giusta o scegliere l'inedito giusto?».
Il quesito era troppo arduo per Biagio, che si limitò a sorridere. Aveva anche imparato che il sorriso, certe volte, può valere come un «so dove vuoi arrivare».
«Ci siamo, no?». Attilio aveva abboccato alla finta di Biagio, quindi Biagio fece un secondo sorriso. Questa volta gli venne dal cuore.
«Dunque», proseguì l'altro spegnendo la sigaretta sulla sabbia dell'enorme posacenere, «domani comincia la semina. O, se preferisci, la pesca. Io, come al solito, ci metto la pastura, e tu prepari gli ami».
Pur non cogliendo appieno la metafora del compare, Biagio comprese che dal mattino dopo gli sarebbe toccato di intraprendere il solito giro delle sette chiese. "Magari fossero soltanto sette...", pensò.
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Alla fine la scelta (non di Biagio, ovviamente, ma di Attilio) cadde su un autorevole quotidiano a elevata tiratura. Elevata, s'intende, relativamente ai numeri italiani. Si decise anche, in accordo con P..., il caporedattore coinvolto al quale giovò non poco l'antica amicizia che lo legava (si fa per dire) ad Attilio fin dai tempi del liceo, il giorno di uscita: domenica 11 aprile. Com'è noto, in Italia la domenica si ha più tempo per tutto, persino per leggere, quindi l'«asso» lo si doveva calare in uno di quei giorni fatali, e in particolare nelle ore tra la conclusione della messa delle 11 e l'inizio del pranzo; tra la fine delle partite e l'inizio di «90º minuto»; e tra il momento di coricarsi e quello di spegnere la luce del comodino. Inutile dire che sia Attilio, sia (per quanto in misura nettamente minore) Biagio avrebbero tratto, dallo «ius primae paginae» concesso all'autorevole quotidiano, una... corsia preferenziale per alcuni romanzetti di poco conto che pubblicavano in serie facendo soldi a palate.
Ma, una volta riempita la casella dell'«a chi», occorreva riempire quella del «che cosa». Solitamente di ciò si occupava Attilio, la mente, mentre a Biagio, il braccio, spettava l'«a chi». Tuttavia...
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Il 5 aprile, per ironia della sorte fu proprio il suddetto autorevole quotidiano a render nota con il risalto che meritava la notizia che qui di seguito sintetizziamo:
«Un avviso di garanzia è stato recapitato all'editore e impresario teatrale Attilio R... in merito all'inchiesta detta "Calciopoli 3". Il nome di R... ricorrerebbe in alcune conversazioni telefoniche dell'avvocato G... e di sua moglie M... (detta "la Regina") sottoposte a intercettazione per ordine della procura di Milano. "Ho totale fiducia nella giustizia italiana, ma tengo a precisare di essere completamente estraneo alla vicenda del calcio scommesse", ha commentato R...».
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Così, andato miseramente a vuoto il tentativo di rinviare a data da destinarsi la pubblicazione del preziosissimo inedito (il caporedattore P... fece capire a suon di urla e di minacce neppure troppo velate che non era aria...) a Biagio non rimase altra possibilità che agire da solo.
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Nella sezione Cultura del sempre più autorevole quotidiano di cui sopra, il giorno 11 aprile comparve, con richiamo in prima pagina, il seguente breve racconto:
«Taira no Sabadumi, comandante in seconda del Corpo dei Gendarmi, era conosciuto con il soprannome di Heichu. Bello e di modi eleganti, Heichu era assai popolare fra le dame di corte. Un giorno conobbe Jujú, figlia del ministro dell'Hon-in, e subito se ne innamorò. Ma la ragazza, pur avendolo invitato una sera nella sua casa, non gli si concesse, accendendo di risentimento e di odio il cuore del suo pervicace ammiratore, cui tuttavia concesse di ritirarsi a dormire in una stanza vicina alla sua. "Ah, se potessi almeno sentir sparlare di lei! Mi sentirei liberato dalla malia di quella sirena!", così ragionava il bel comandante. "Per ammirevole e affascinante che sia, anche lei deve pur fare e mettere nel vaso da notte quel che tutti facciamo. Se m'impadronissi del suo vaso, il disgusto che ne proverei mi libererebbe dalla diabolica attrazione che ella esercita su di me". Così fece. Heichu, uscito dalla stanza che gli era stata riservata, intercettò la serva di Jujú e le carpì il vaso da notte della sua padrona. Era pieno a metà di un liquido paglierino con sfumature sul rosa. Inoltre vi era una sostanza in tre cilindrici pezzetti marrone, della grossezza di un pollice, tendenti al nero, lunghi due o tre falangi. Heichu accostò il vaso alla bocca e succhiò appena: si ritrovò tutto impregnato del profumo di chiodo di garofano. Quindi infilò l'estremità di un pezzetto di legno in un cilindretto, se lo avvicinò alla bocca e lo leccò: aveva un gusto soave. Heichu era un uomo pronto di spirito, e subito trovò una spiegazione dello strano fenomeno. "La cosa che lei fa credere urina - si disse - è acqua dove si sono fatti bollire chiodi di garofano. E l'altra cosa... dev'essere una sostanza ottenuta facendo macerare igname e spezie in uno sciroppo di amazura: il tutto, introdotto in un piccolo cilindro, è stato poi spinto fuori. Potrebbe farlo chiunque, ma l'idea che qualcuno potesse trarre soddisfazione da ciò, questa è una cosa geniale. Chi l'ha avuta, non la si direbbe una creatura di questo mondo". In breve Heichu cadde malato e morì tra le sofferenze».
Il racconto era accompagnato da una nota, siglata A.A.:
«Tratto dal "Konjaku monogatari-shu", cioè "Raccolta di racconti del tempo che fu", questo antico apologo giapponese, del tutto inedito in Italia, si colloca nella tradizione, ormai consolidata all'epoca della sua composizione, cioè il XII secolo, del racconto edificante buddhista. Chiaro l'insegnamento morale che se ne trae. Non tutto è come sembra. E, soprattutto, a volte ciò che appare come appare è il frutto di una volontaria mistificazione».
PS Il racconto, come si sarà sospettato, non è inedito. È apparso, in una versione più lunga, con il titolo redazionale «L'ineffabile Jujú», nel volume «Memorie della luna. Storie e leggende dell'antico Giappone» (Guanda, 1991, a cura di Irene Iarocci).
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