Oggi Giuseppe Meazza avrebbe compiuto cent'anni. Per quelli della nostra generazione, non è un anniversario qualunque. Perché Meazza è stata l'idolo degli Anni Trenta, il ragazzo, che tutti chiamavano Balilla, perché a 17 anni (27 settembre '27), era stato capace di conquistarsi un posto da titolare nell'Inter (Ambrosiana dall'8 settembre '28). Era uno dei tanti ragazzetti, come noi, né piccolo né alto, ma dallo scatto bruciante, con il quale accendeva l'entusiasmo dei tifosi nerazzurri e provocava le maledizioni degli avversari, per i suoi gesti davvero straordinari. Lo seguivamo, soprattutto nei racconti di Bruno Roghi, soffiando la Gazzetta lo Sport al padre o a qualcuno dei suoi amici, imparando a memoria la descrizione dei suoi gol o le sbertucciate agli avversari con più facilità di quanto non avvenisse per le lezioni e i compiti di latino. Meazza era diventato subito un mito per noi ragazzi milanesi, non soltanto perché non aveva niente del super-atleta, ma soprattutto per la sua storia: nato a Porta Vittoria, magro come l'«antiport d'un scioeur» (l’anticamera di un ricco, detto milanesissimo), anche a lui (come a tanti di noi) la mamma nascondeva le scarpe, perché non le sfasciasse giocando a calcio. E correndo dietro al pallone scalzo, aveva imparato a tenerselo incollato al piede, nemmeno se lo fosse legato con la corda. In realtà, la sua, era una qualità naturale, il segno del genio calcistico che era, ma forse anche quell'allenamento era servito per migliorare. E poi piaceva questo nome di Balilla che gli era stato dato, non perché rappresentasse l'incarnazione del regime, m a semplicemente perché un compagno di squadra, già famoso, Poldo Conti, non aveva gradito l a scelta dell'allenatore Weisz di puntare su un diciassettenne: «Ormai facciamo giocare anche i Balilla». Come dire: un ragazzino. E noi che giocavamo in cortile, cercavamo tutti di imitare Meazza, anche nei gesti impossibili e nei numeri che soltanto a lui riuscivano sul campo. Essere il Meazza, anche se soltanto per un giorno, voleva dire essere stato il migliore in campo. Quando era possibile dribblare gli impegni pomeridiani del ginnasio, andavamo a vedere i suoi allenamenti e alla domenica, tornavamo all'Arena per le partite: grazie al prezzo stracciato di due lire, potevamo assistere allo spettacolo dalle ringhiere del settore Carceri, dove osservavamo le sue prodezze, spesso indovinando i suoi dribbling, più che vedendoli, data la lontananza dal campo di gioco. Con il passare del tempo, il Balilla era diventato «El Pepin» per gli appassionati e non soltanto perché, nel frattempo, lui la Balilla se l’era comprata davvero. Dei suoi gol, colpiva più ancora del doppio o triplo dribbling, la capacità di attirare il portiere in uscita, prima di consegnare la palla in rete. Un numero unico. È passato un secolo e Meazza è morto 31 anni fa. Ma il suo nome è nella storia. Per sempre. Carlo Monti, oltre ad essere giornalista di razza, da anni collaboratore de il Giornale, è stato uno degli atleti più prestigiosi dell’Italia negli anni quaranta. Giovanotto classe 1920, segue con immutata passione il calcio e l’atletica leggera nella quale fu grande protagonista: a 26 anni vinse il bronzo europeo nei cento metri a Oslo e, a 28 anni, in compagnia di Michele Tito, Enrico Perrucconi e Antonio Siddi conquistò il bronzo nella 4x100 alle Olimpiadi di Londra 1948). Grande grinta, temperamento focoso tipico dei velocisti, sono state le doti che hanno accompagnato il suo scatto da eccellente sprinter. La guerra forse gli ha tolto qualche anno di gloria sulle piste d’atletica.
Di recente ha scritto anche un bel libro sulla marcia, altra specialità che lo ha sempre incuriosito professionalmente. Dunque chi, meglio di lui, ragazzino eppoi atleta negli anni delle grandi gesta di Meazza, e interista nella fede calcistica, poteva riportarci ai sentimenti e alle sensazioni di quei tempi lontani?- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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