Curiosa sorte dei toscani Giacomo Puccini, di Lucca, e Ferruccio Busoni, di Empoli, entrambi morti nel 1924, ma entrambi anche stregati dalla crudele principessa cinese Turandot. Rimasta per quasi due secoli e mezzo in una sorta di limbo letterario, fu ripresa per il teatro lirico dai due musicisti nell'arco di una decina d'anni. Nel 1917 a Berlino debuttò infatti la produzione di Busoni, quella del Maestro nel 1926 alla Scala, che ora lo ripropone dal 10 aprile a 13 maggio. E se il primo si attenne rigorosamente, tranne il taglio di alcuni personaggi, alla commedia scritta nel 1762 dal veneziano Cesare Gozzi, Puccini la rivoltò come un calzino lasciando, di fatto, solo la struttura centrale: ossia i tre enigmi da risolvere per conquistare il cuore dell'algida principessa, pena la morte.
Molte infatti sono le differenze che il musicista di Lucca impose a Giuseppe Adami e Renato Simoni nella stesura del libretto per meglio adattare la vicende alla sua visione artistica. Così Calaf, affrontata e vinta l'impresa, rimette in gioco la sua vita e sfida Turandot nel scoprire il suo nome. La principessa scopre che Liù, la schiava di Calaf che accompagna suo padre ed è innamorata di lui, conosce quel nome, la mette alla tortura e lei si uccide per non cedere al supplizio. Così finalmente Turandot capisce la forza dell'amore e si getta tra le sue braccia.
Ma nell'intreccio gozziano non c'è nessuna Liù, o meglio c'è una schiava innamorata di Calaf ma appartiene a Turandot e si chiama Adelma. Anche lei conosce il nome di Calaf che nella versione pucciniana da principe di Astrakan diventa figlio del sovrano dei Tartari. Adelma alla fine non solo non si toglie la vita per evitare di rivelarlo sotto tortura, ma viceversa per vendicarsi di non essere lei la prescelta, lo spiffera senza riguardo alla sua padrona. Della serie «O mio o di nessuna». E tenterà, senza riuscirci, il suicidio, solo quando scopre che Turandot non gli taglia la testa come promesso. Cambiano poi gli enigmi, se per Adami e Simoni sono «la speranza, il sangue e Turandot», per Gozzi erano «il sole, l'anno e il leone dell'Adria, cioè Venezia».
Lo scrittore immerso nel suo universo di commedia dell'arte, circonda Altoum di quattro dignitari in realtà maschere della tradizione. E cioè Pantalone, segretario dell'imperatore, Tartaglia, gran cancelliere, Brighella, maestro dei paggi, e infine Truffaldino, capo degli eunuchi del serraglio di Turandot. Per loro non ci sono dialoghi e situazioni ben definiti, bensì un «canovaccio» dove sono indicati gli elementi di base della sceneggiatura senza entrare eccessivamente nel dettaglio, per lasciare spazio agli attori di improvvisare. In piena commedia dell'arte dunque con i pochi testi per di più scritti in dialetto veneziano. Puccini, come del resto aveva fatto anche Busoni, ne toglie uno. Il musicista di Empoli elimina infatti Brighella e lascia gli altri tre con il loro nomi, caratterizzandoli musicalmente come due bassi, Pantalone e Tartaglia, e un tenore, Truffaldino. Puccini interviene in maniera più radicale li trasforma in Ping, Gran Cancelliere, Pang, Gran Provveditore, e Pong, Gran Cuciniere, vocalmente un baritono e due tenori. Casualmente, ma forse no, il «tre» è anche un numero massonico, e Puccini era iscritto a una loggia del Grande Oriente d'Italia. E i suoi Ping, Pong e Pang rispettano lo stesso equilibrio armonico delle tre dame velate del «Flauto Magico», due soprani e un contralto, dell'altro celebre «libero muratore» Wolfgang Amadeus Mozart.
Puccini come ben si sa non riuscì però a finire l'opera. Arrivato alla morte di Liù, pianta da Timur insieme al coro con il celebre «Liù, poesia!» si fermerà due battute dopo.
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