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"Cento ripartenze" che danno speranza

Paolucci narra le storie di chi ha avuto un'altra chance. E ce l'ha fatta

"Cento ripartenze" che danno speranza

Ci sono i detenuti del carcere di Opera, protagonisti del progetto «Il senso del pane». Un'iniziativa che in pochi anni si è allargata ad altri penitenziari e ha raggiunto numeri impressionanti: 4 milioni di ostie regalate a 500 chiese. Ci sono due fratelli angolani, Josè e Xavier, che hanno studiato nel nostro Paese, si sono laureati e sono tornati in Africa, aprendo una scuola frequentata da 500 ragazzi. C'è padre Raphaël Duchoud, uno dei canonici che gestisce il rifugio del Gran San Bernardo. E da lassù riassume la sua filosofia con poche, penetranti parole: «Qui non si chiude mai per ferie. Siamo aperti ogni giorno da mille anni». E c'è Fabrizio, che è entrato nella comunità Pinocchio di Brescia come tossicodipendente all'ultima stazione, sfiancato nell'animo e con un corpo ridotto a soli 48 chili, e ne è uscito come un uomo nuovo, trasformato e rinato «quando si è accorto di essere accolto non come uno sfortunato ma come qualcuno che cerca il senso di sé». Cento storie messe in fila dalla penna cristallina di Giorgio Paolucci, editorialista ed ex vicedirettore di Avvenire: un mosaico di esperienze e drammi, segnati però dalla luce di un incontro, di un cambiamento, di un sorriso rigeneratore. Laici e religiosi, italiani e stranieri, giovani e vecchi, disperati e scienziati in prima linea, come Elvira Parravicini che alla Columbia University di New York si è inventata il primo neonatal hospice per i più piccoli che avranno purtroppo un tragitto corto, ma grazie alla sua intuizione, dignitoso e meno doloroso.

È un libro in controtendenza Cento ripartenze, appena pubblicato da Itaca con la prefazione di Daniele Mencarelli (pagg. 112, euro 12): non si unisce al coro del piagnisteo generale, peraltro più che giustificato dalla crisi economica, dalla pandemia, dalla guerra in Ucraina e da tutto il resto, ma esplora strade colme di speranza, con una prospettiva coraggiosa, anzi temeraria per i tempi di oggi, ma alla fine realistica perché le trame descritte non sono fiction ma realtà in carne e ossa. Ecco, il ragazzo arrivato senza mezzi, solo con la propria povertà, che ora è di nuovo in Africa ad impiantare pannelli solari; e poi Arjan Dodaj, il sedicenne sceso da un barcone che dopo anni di fatica e poi di seminario è oggi l'arcivescovo di Tirana. Personaggi che ci sfiorano ma che troppe volte ci lasciano indifferenti, anche se ce l'hanno fatta: hanno sconfitto la disperazione, pure se non tutte le vicende sono a lieto fine. Colpisce, fra tanti incontri sorprendenti, quello con Gemma Capra, vedova del commissario Luigi Calabresi, ammazzato da un commando di terroristi a Milano il 17 maggio 1972. Quella tragedia ha segnato la cronaca e ha aperto la stagione cupa e sanguinosa degli anni di piombo, ma lei, Gemma, ha attraversato quel disastro che ancora l'accompagna, con uno sguardo diverso che Paolucci intercetta, rievocando i minuti terribili in cui don Sandro, il sacerdote che li aveva sposati, entra nella casa di via Cherubini e comunica alla giovane donna che Luigi non c'è più: «Era come se qualcuno mi avesse presa in braccio, e io, abbandonata in quell'abbraccio, capii, seppi senza ombra di dubbio che ce l'avrei fatta. Io, una ragazza di venticinque anni a cui avevano appena ammazzato il marito, presi la mano di don Sandro e mormorai Diciamo una preghiera per la famiglia dell'assassino».

Quello di Paolucci non è un testo ingenuo, come qualcuno frettolosamente

potrebbe pensare, ma candido. Una lezione di antropologia scacciacrisi nell'epoca dell'uomo breve, sempre più fragile e incerto. Tante, troppe volte c'è chi ci dà la mano e ci regala una chance, ma noi nemmeno ce ne accorgiamo.

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