In 18 anni, dal 1994 quando fece le prime prove, il centrodestra ha perso più di un’elezione: nel 1996 avvenne per la divisione tra Silvio Berlusconi e Umberto Bossi, tra il 2005 e il 2006 per le trame di Luca Cordero di Montezemolo, Gianfranco Fini e Pier Ferdinando Casini. Nelle elezioni del maggio di quest’anno ha pesato - più che le divisioni nello schieramento moderato - il fatto che un certo vento di protesta non era intercettato più prevalentemente da berlusconiani e bossiani, bensì da uno schieramento guidato da una linea estremista e giustizialista organizzata dal Fatto e accompagnata da la Repubblica, sorretta da agguerriti protagonisti mediatici e da pm tipo Ilda Boccassini.
Questa protesta e questo voto non hanno dato vita a un blocco sociale alternativo: non è e non sarà semplice mettere insieme i seguaci (e le basi sociali) di Fini e Casini e quelli di Giuliano Pisapia e Luigi De Magistris. Però si sono poste le fondamenta per un’attività di disgregazione, ora in atto, ispirata da tutte le nomenklature primorepubblicane e dai vari centri del potere immobile italiano a partire dai settori «insurrezionali» della magistratura. Il blocco sociale del centrodestra può sicuramente ancora recuperare la sua centralità purché si renda conto che un certo tipo di protesta prima particolarmente «pagante» non può più funzionare.
È indispensabile senza dubbio diminuire le tasse ma non è possibile farlo (evitando di incorrere in rischi di tipo «greco») senza tagliare la spesa pubblica. È necessario incidere sulla spesa pubblica ma non ci si riesce senza una riforma dello Stato, innanzi tutto in senso federalista ma non solo. Si tratta di proporre un assetto delle istituzioni che consenta sia di governare sia di controllare chi governa in modo che ogni scelta non sia solo efficace ma possa trovare il consenso necessario che non sempre accompagna le scelte razionali quando sono prese senza una pubblica discussione.
È dunque indispensabile riformare lo Stato però non si potrà farlo finché larghi settori militanti e corporativi della magistratura non cesseranno di avere una linea demagogica e distruttiva che sconvolge la vita delle istituzioni stesse. D’altra parte riportare i magistrati insurrezionali nelle caserme (con la tappa inevitabile della separazione delle carriere) non sarà possibile se il centrodestra non darà vita a una chiara iniziativa per il consolidamento della legalità nel nostro Paese.
Il centrodestra non ha mancato nei campi richiamati di assumere iniziative, si consideri solo il contrasto di Roberto Maroni alla mafia o l’impostazione della riforma federalista, ma spesso le scelte sono state presentate singolarmente, con lo stile un po’ da movimento di opinione che caratterizza sia la Lega sia il Pdl, in sintonia con un certo mal di pancia nazionale che privilegiava gli slogan sulle «riflessioni». Oggi questa strada è in parte sbarrata dalla protesta estremista-giustizialista a cui va contrapposto innanzi tutto un profilo di governo che non hanno i manettari e tanto meno le nomenklature interessate solo al ritorno del proporzionale per impaludare l’Italia.
Quel che serve oggi è presentarsi come forza di governo della «complessità», il che è anche la base per vincere una guerra della comunicazione che vede oggi prevalere, nell’abilità dell’uso dei media, le truppe della «palude» e dei «manettari».
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