Sapeva di essere, per lignaggio, l'ultimo dei grandi giornalisti culturali cioè, l'unico, un unicum. Negli anni, si era fatto più dolce dunque, quando era necessario, più duro. Convertiva in tenerezza il timor sacro con cui qualche discepolo io, per dire, il più misero lo omaggiava.
Cesare Cavalleri aveva l'eleganza dei perfezionisti, il frugale orgoglio di chi sa abbassarsi; lo spazientiva la stupidità. Con punte di vanto, raccontava di aver rimproverato a Montale, il poeta che amava, «quel suo disperdersi in sciatta pubblicistica di tono apocalittico». Era un ragazzo. Montale replicò, irretito; Cavalleri continuò ad augurargli il Nobel. Quando Montale fu infine coronato dall'alloro svedese, Cavalleri lo incrociò a Milano, avrebbe voluto gridargli gli auguri, «ma mi trattenni, perché per molti gli auguri portano sfortuna, e Montale credo sia superstizioso». L'articolo è del novembre del 1975 e si chiude con una nota teologica prima che sentimentale: «anche i poeti più difficili da amare sono i più bisognosi di essere amati». Reincontrò Montale, per così dire, nella camera ardente del San Pio X, a Milano, «era sereno, con un vago sorriso. Gli era stato messo un vestito blu, forse lo stesso con cui si era recato a Stoccolma sei anni fa, per ricevere il Premio Nobel». Più che la tinta dell'abito, qui Cavalleri cita Dino Buzzati: nel celebre coccodrillo scritto sul corpo di Albert Camus e pubblicato dal Corriere della sera, Buzzati rievoca l'incontro parigino con il Nobel e la sua danza sfrenata con «alcune graziose ragazzine»; la chiusa del pezzo, fenomenale: «Era vestito di blu». Buzzati è stato uno dei rari lari di Cavalleri, divinità domestiche del proprio rigorosissimo pantheon letterario: un breve epistolario sancisce la reciproca stima, l'album di un'amicizia.
Cavalleri sapeva che il giornalista culturale ha il culto dello stile, esigenza d'intelligenza, prassi da pioniere del verbo. Sa essere più brillante di un romanziere, più sagace di un filosofo; gli è necessaria la sprezzatura prima della retorica. Non esprime opinioni, ma conosce tutti i veleni del linguaggio, scrive per i lettori e mai per gli accademici, preferisce la lotta all'encomio e nella sua carriera, più che altro, colleziona nemici. Non lo si vede in tivù perché lo disturba la chiacchiera fine a se stessa; i suoi pezzi lavori fatti ad arte, dove l'oreficeria si confonde con le bolle di sapone hanno l'ambizione di essere ritagliati & conservati. Figura antinomica e paradossale, che poco guadagna da ciò che fa, in tutti i sensi gli è proprio un sano spreco di sé, l'opera in fieri, la grande incompiuta e la somma rinuncia : in un mondo di intellettuali, il giornalista culturale è l'assoluto inattuale.
Letture (Edizioni Ares, pagg. 1320, euro 30) raccoglie cinquantacinque anni di lavoro culturale di Cesare Cavalleri. È un libro testamentario, per nulla sepolcrale: la vitalità degli articoli di CC supera, per flemma, carisma del fraseggio, supremo divertimento, i colti pennaioli di oggi, cultori di se stessi. Il libro, grazie al micidiale «Indice degli autori letti», può essere sfogliato come un'enciclopedia della letteratura recente, una contro-storia della cultura italiana, un salvifico antidoto all'anodina, anonima Wikipedia. Cavalleri, direttore delle Edizioni Ares e del mensile Studi Cattolici, storico collaboratore delle pagine culturali di Avvenire dal primo numero amico di Ennio Flaiano, «osservatore implacabile del nostro mondo in sfacelo», e di Giorgio Caproni, «un grande del Novecento» (lo testimonia un fertile epistolario, in parte riprodotto nel volume), morto il 28 dicembre dello scorso anno, eccelleva nella stroncatura, genere oggi vilipeso o confuso con l'acido del battutista. Memorabile quella a Le nozze di Cadmo e Armonia, romanzo di Roberto Calasso ricco di incensatori e con odor di incenso; siamo 1989 e la chiusa dell'articolo pretende l'intelligenza di un lettore complice, non la proditoria viltà dell'hater contemporaneo: «Calasso resta dunque con la sola risorsa della sua scrittura, della sua scrittura lievitata da fioca febbre (due o tre lineette di aristocratica febbrìcola) ad aggirarsi fra... simulacri di simulacri. Non più la tenera frigidità del marmo, ma la polvere che opacizza la fragilità dei gessi».
Le battaglie all'arma bianca cioè, con la certezza di essere nel giusto contro Umberto Eco (l'ultima stroncatura a «quei suoi indigeribili romanzi» è del 2015) e contro «l'arroganza, il pressapochismo, la banalità dello scalfarismo» (s'intende, di Eugenio Scalfari, era il 2007) appartengono all'albo d'oro del giornalismo. Chi vuole divertirsi farà bottino: segnalo le feroci sortite contro Alessandro Baricco («E la letteratura? La letteratura è altrove», era il febbraio del 2012, si parlava di Senza sangue, romanzo giustamente dimenticato), Margaret Mazzantini («in Mazzantini tutto resta in superficie, in una superficie di parole che, se fosse trasparente, lascerebbe intravedere il niente», era il 2004) e Carlo Cassola (era il 1967, furibondo incipit: «In fondo al binario che la narrativa di Cassola ha imboccato dopo La ragazza di Bube, già si intravede il terrapieno: è un binario morto»). Dalle spire di Cavalleri non esce indenne neppure Cormac McCarthy: La strada è «sceneggiatura quasi pronta, e allora si faccia il film e si lasci perdere il romanzo».
Soltanto un principe del giornalismo poteva riassumere l'epilogo di Maria Callas con un cammeo docile e spietato: «Era una donna stanca e sola che aveva avuto tutto e aveva perso tutto». Sapeva, da grande uomo, cambiare idea e scrutare il torbido fino a scorgere il mai domo bene. Così, pur non amando Pasolini e disprezzando i suoi pivelli pupilli, rissosi intorno al cadavere orrendamente fustigato («Scrittori e intellettuali fecero subito a gara per rilasciare la dichiarazione più sciocca»), consigliava la lettura delle sue poesie, perché «è giusto operazione terribile, più funebre che chirurgica, ma pur sempre pietosa separare la poesia dall'inferno di una vita» (5 novembre 1975, Avvenire). Di Cesare Viviani stigmatizzò L'ostrabismo cara («gioca a deformar parole in uno sfondo confusamente junghiano, con risultati tetri, che scoraggiano la lettura», 1973), riconoscendo «una poesia bellissima» in Preghiera del nome (1990).
Poi, ci sono gli autori prediletti, spesso poco noti ai più, ignorati da un mercato editoriale che tende a premiare il facilmente digeribile, cioè l'indigesto. Sergio Solmi, Elio Fiore, Alessandro Spina («il più ritroso dei grandi scrittori italiani»), Eugenio Corti sono i favoriti di sempre. Tra gli autori di oggi, l'ammirazione va verso Luca Doninelli (La polvere di Allah è detto «breve romanzo e capolavoro assoluto»), Nicola Lecca («il più dotato dei giovani scrittori»), Alessandro Zaccuri. Tra i poeti, Cavalleri ha scoperto Alessandro Rivali, esaltandolo con l'esagerata enfasi di un padre («Nella storia della letteratura, forse, si parlerà di un prima e di un dopo La caduta di Bisanzio»).
Apprezzava l'opera di Antonio Porta e di Edoardo Sanguineti; consultava con strenua fiducia l'I-Ching, l'antichissimo oracolo cinese, «un libro molto serio, non per giochi di società»(2018). Adorava i libri di Milan Kundera. Chi legge Cavalleri da sempre ritroverà la descrizione dell'indimenticabile tu-per-tu con Ezra Pound, a Venezia, era il 1971: «mi porse una mano gelata dopo essersi rapidamente passato il bastone nella sinistra e rimase per un po' a guardarmi con in fondo agli occhi una lampo di comprensiva ironia che abbracciava, con tutto il mondo, anche sé stesso». Tra le leccornie di questo volume, spicca una bella lettera di Guido Ceronetti che si scaglia giustamente contro i cristiani che «non reagiscono più a niente!»; Cavalleri si dichiarava suo «fedele lettore, stregato da quella scrittura erudita e spiazzante».
Insomma, Letture è lettura necessaria per giornalisti (racchiude l'abbicì del mestiere), sorprendente per i lettori forti, utile per tutti gli altri (si impara molto, leggendo pochissimo).
N.B. Segnalo un refuso: nella nota che mi riguarda, Cavalleri mi assegna un anno di troppo.
In risarcimento, avrei chiesto all'Onnipotente di concedermi un anno in più della sua amicizia, della sua presenza. Ma si sa, la Provvidenza è imprevedibile e questa vita è stretta tra il famelico e la fuga: ci incontreremo quando il tempo non avrà più senso, nulla più che sabbia nelle mani di un insensibile sensale.
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