Secondo un'ipotesi della paleolinguistica alcune popolazioni per comunicare la sensazione di paura usano parole che contengono la lettera «f» (come l'inglese fear, dal medievale feer, fere, fer, o il proto-germanico fêrö, fêra o il tedesco Gefahr o lo svedese fara...) in quanto riproduce il suono che alle orecchie dell'uomo primitivo annunciava la cosa più spaventosa, perché invisibile: il vento. La frusciante «Fear», quindi, sarebbe una parola onomatopeica.
Se l'universo delle lingue è già di per sé affascinante, il piccolo mondo delle onomatopee - parole o locuzioni che riproducono suoni e rumori - è qualcosa di intellettualmente seducente. E qui il discorso è colorato, giocoso, chiassoso, pieno di sorprese a ogni sillaba. Crac, tump, ciac, clof, tunfete. E che non sia tutto un bla-bla-blà.
L'onomatopea ha dietro di sé una storia lunga, accomuna tutti i popoli, è trasversale alla comprensione del linguaggio e insieme ai gesti costituisce una comunicazione universale. Se imploro «Glo-glo», chiunque capisce che ho sete. Eppure, nonostante le sue ricchezze, l'onomatopea è spesso confinata nelle pieghe della comunicazione più popolare: il fumetto, la pubblicità, la canzone, il dialetto, gli slang, i titoli di giornale («Toh!»), la pop art. Boom! Zap! Pow! E come sussurra Diabolik quando lancia un pugnale, Swissssssss!
È vero: alcune parole onomatopeiche (bau, chichiricchì, drin...) hanno sempre trovato un posticino, schiacciate fra le voci nobili, nei grandi dizionari (discorso diverso invece per le parole di origine onomatopeica: miagolio, scricchiolio, bisbigliare, ronzare, ticchettio...). Ed è verissimo che l'onomatopea ha conosciuto una mirabolante stagione letteraria ai primi del '900, soprattutto con Palazzeschi, Marinetti e il Futurismo; e qui più che l'immortale canzonetta E lasciatemi divertire! vorremmo citare l'inarrivabile poesia La fontana malata, 1909, che inizia gocciolando: «Clof, clop, cloch,/ cloffete,/ cloppete,/ clocchete,/ chchch.../ È giù,/ nel cortile/ la povera/ fontana/ malata...». Ma mai l'onomatopea ha avuto, almeno in Italia, un proprio dizionario. Fino ad ora. Hurrà! (voce onomatopeica francese). Eccolo qui: l'ha scritto Marco Lanterna, s'intitola Patatrac. Dizionario onomatopeico-rumorista della lingua italiana (Luni) e registra circa mille voci (da «Aaah», imitazione del grido umano, esempio: «Auaaa!!! È morto», di Fortunato Depero, a «Zzz», che riproduce il ronzio degli insetti) per provare a mappare termini, usi, ricchezze fonetiche e citazioni d'autore (Giovanni Pascoli, Carlo Collodi e Gianni Rodari sono gli scrittori, non a caso fanciullini, che più fanno uso di onomatopee, ma ci sono molti Marino Moretti e Achille Campanile oltre ad alcuni Gadda o Landolfi imperdibili...) in un continuo parallelismo fra pensiero, azione e parola.
Tra le curiosità del fracassoso dizionario. L'onomatopea più diffusa, in quasi tutte le lingue, è «bang» (o «beng»): visualizza scoppi, esplosioni, colpi. L'onomatopea più politicamente scorretta: «coccodè» e relative ragazze-gallina. L'onomatopea più irricevibile: «Eia eia, alalà!» (fascisti!!!!). L'onomatopea che ha avuto meno successo di tutte: «flop» (è una battuta, ndr). Quella più fluida: «Fru fru», o «frufrù». La canzone onomatopeica più celebre: Knockin' On Heaven's Door di Bob Dylan (ma anche «Cuccurucucu Paloma/ Ahia-ia-ia-iai cantava/ Cuccurucucu Paloma...»). E poi c'è l'imbarazzante capitolo «Onomatopea e pornografia», ambito in cui certi fumetti degli anni '70-80 hanno dato il meglio, tipo: fott, lap, mgoum, pomp, sbor, sbrurp, schiz, sfiss, slap, slurp, spunz, swoop, zonk...
Alla fine, non resta che una piccola critica,
personalissima: manca il romanesco, che è un'enorme, continua, indistinta onomatopea: aho, daje, stacce, 'na cifra, nòne... ma vabbè. E poi, naturalmente, chiuso il dizionario, vorremmo anche rivolgere un clap clap all'autore.
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