«In tutta la mia carriera non ho mai dipinto una copia! Ma vi dipingerò un nuovo Vermeer. Vi dipingerò un capolavoro!», disse nel 1947 Han van Meegeren, pittore e ritrattista olandese considerato uno dei più abili falsari d'arte del XX secolo, davanti alla Corte che lo giudicava per alto tradimento con l'accusa di aver venduto durante la guerra un pezzo del patrimonio olandese al gerarca nazista Hermann Göring. Van Meegeren, in realtà, gli aveva rifilato un falso, anzi due, dei sei Vermeer farlocchi con cui era riuscito a ingannare i migliori esperti del seicentista olandese. È una delle tante storie ripercorse dallo storico americano Noah Charney, autore di bestseller sui crimini dell'arte, recentemente a Milano per il convegno alla Fondazione Rovati «L'insostenibile riproducibilità dell'arte» organizzato dalla sua casa editrice Johan & Levi.
Nella sua ricerca emerge che anche grandi maestri come Luca Giordano furono autori di falsi. Quale giudizio possiamo dare di questi casi?
«Molti artisti famosi furono anche falsari, Luca Giordano tra loro. In realtà fece uno scherzo a uno dei suoi mecenati falsificando un dipinto di Dürer per farglielo acquistare. Questi non la prese bene quando lo scoprì. Anche Michelangelo iniziò la sua carriera come falsario. Ad esempio spacciò una sua statua, Eros dormiente, per un'antichità romana che fu acquistata dal cardinale Riario. Dopo un paio d'anni il cardinale si insospettì e si lamentò chiedendo indietro i suoi soldi. Il mercante fu più che felice di accontentarlo perché a quel tempo la Pietà era già stata svelata al mondo, e un Eros dormiente di Michelangelo era improvvisamente molto più prezioso di un'anonima statua romana antica...».
Le perizie si affidano ancora oggi ai cosiddetti esperti, spesso legati ad Archivi o Fondazioni private. Basta a tutelare i collezionisti?
«Assolutamente no, l'opinione soggettiva di sedicenti esperti è il modo meno affidabile per autenticare. Dopo la Seconda guerra mondiale la ricerca della provenienza è diventata molto importante, ma più per garantire che un'opera d'arte immessa sul mercato non fosse stata rubata o trafugata durante la guerra che per controllare le falsificazioni. I trafficanti sfruttano l'eccessiva dipendenza dalla provenienza (falsificabile quanto e più dell'opera) rispetto alle analisi scientifiche sugli oggetti stessi. I test forensi dovrebbero invece sempre essere applicati a qualsiasi opera d'arte che valga più di 100mila dollari».
Nel suo libro si sofferma sul problema delle trappole di provenienza. In cosa consistono?
«Sono trappole predisposte dai falsari per ingannare gli esperti e far loro autenticare le falsificazioni che hanno creato. Lo fanno offrendo alcuni indizi all'esperto e lasciandolo seguire la pista, sempre più eccitante man mano che si procede. La chiave è falsificare degli elementi per creare il mistero di un'opera perduta di un artista famoso. Nel mio libro cito cinque varianti e fornisco un caso di studio per ciascuna: quelli di Eric Hebborn, Han van Meegeren, Ely Sakhai, John Myatt e Shaun Greenhalgh sarebbero degni di un grande film di Hollywood».
Citando questi e altri famosi falsari, lei tradisce un occhio di benevolenza per questo tipo di crimine. Perché si tratta pur sempre di bravi artisti?
«Devo ammettere di avere un debole per i falsari. Non sono quasi mai collegati alla criminalità organizzata (a differenza dei ladri d'arte), quindi sono meno discutibili dal punto di vista criminologico. Sono quasi tutti non violenti, intelligenti e spesso spiritosi. Non mi dispiacerebbe andare a bere una birra quasi con ognuno di loro, e alcuni mi hanno scritto durante le mie ricerche o quando è uscito il libro. Li descrivo più come burloni che come gangster. Ma raramente si tratta di grandi artisti».
Scrive di aver scoperto che la maggioranza dei falsari ha contraffatto per vendetta e non per soldi. Ci spiega?
«Ho esaminato circa 120 falsari e ne ho inclusi circa 60 nel mio libro. Quasi tutti sono uomini caucasici di mezza età che hanno provato e fallito nella carriera di artisti: quindi si sono dedicati inizialmente alla contraffazione come modo per ottenere una vendetta passivo-aggressiva contro il mondo dell'arte che vedono come una sorta di club privato che ha negato loro l'iscrizione».
Quali sono stati gli artisti più falsificati?
«In epoca pre-moderna sicuramente Dürer. Nell'era moderna, Picasso vince di gran lunga. E la forma d'arte più falsificata sono le litografie di metà del XX secolo, in particolare di Picasso, Dalí, Miró, Chagall... Sono facili da stampare su una buona stampante, su una bella carta e cornice: sembreranno litografie. Puoi persino procurarti della carta vecchia di 70 anni per stamparle. Occhi apertissimi quando si acquista questo tipo di opere».
Il suo falsario preferito è Eric Hebborn. Perché?
«Era affascinante e ingegnoso. Ed era uno dei pochi falsari a essere un artista bravo quanto i maestri che falsificava, del calibro di van Dyck e Raffaello. Non fu mai catturato, ma in compenso pubblicò un libro, The Art Forger's Handbook, che è come un libro di ricette per falsari. Ed è molto divertente. E la maggior parte dei falsari arrestati dopo di lui avevano il suo libro nei loro studi. Fu assassinato a Roma nei primi anni '90, misteriosamente...».
Con l'arte digitale e gli Nft la questione autenticità si complica, come difendersi?
«Gli Nft sono affascinanti. Ho pubblicato un libro su di loro. La blockchain rende teoricamente impossibile falsificare un Nft, poiché ogni file è unico e scritto nella blockchain immutabile. Il problema è che servono conoscenze di programmazione specialistiche per poter controllare la blockchain, e le persone che acquistano Nft difficilmente le hanno.
Quando si tratta di Nft sleepminting è un problema più grande della falsificazione: hackerare l'account di qualcuno e pubblicare un'altra versione di un Nft unico. Gli Nft non esistevano quando ho scritto il mio libro The Art of Forgery, uscito nel 2015, quindi ne sto preparando una nuova edizione».
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