Chi è senza Dio scagli il primo libro

Gustavo Zagrebelsky se la prende con "l’etica della verità". E c’è persino un "Catechismo" dedicato ai non credenti. Il nuovo filone della saggistica punta su un generico (e generalista) "pensiero razionale" che si oppone alla cultura religiosa. Dal laicismo militante di Piergiorgio Odifreddi all’indagine "pre-Big Bang" dei gemelli francesi Bogdanov

Chi è senza Dio scagli il primo libro

Forse sarà capitato anche a voi, di andare a casa di un amico e all’improvviso di trovarvi tra le mani un libro di Piergiorgio Odifreddi, accompagnato da un’espressione ammiccante: «Hai visto? Te l’avevo detto che Dio non esiste». Per chi non lo sapesse, Odifreddi è un bravo matematico e un instancabile divulgatore. Negli ultimi anni ha fatto del suo meglio per convincere il mondo che «non possiamo dirci cristiani (e tantomeno cattolici)». Un ateo non devoto, insomma, o perlomeno devoto alle vendite, visto che i suoi libri si allineano in grosse pile nel circuito della grande distribuzione. Qualcosa di simile è accaduto con i libri del francese Michel Onfray e in particolare con il Trattato di ateologia, pubblicato in Italia da Fazi nel 2005.
Quando un pensiero diventa di moda e il suo prodotto si affaccia alle classifiche dei bestseller, le Direzioni editoriali si allineano. Che si tratti di omicidio seriale, di ricette a base di cioccolato o di epopea popolare afghana, poco importa. Ciò che conta è imbroccare il trend. Sfruttare il filone, finché non s’inaridisce. Si è appena affievolito, nella narrativa, l’«effetto Codice Da Vinci», e nella saggistica decolla quello che alcuni hanno definito «l’ateismo prêt à porter».
È tutto uno sgomitare di tesi che invocano a proprio sostegno il «pensiero razionale», contrapposto a quello religioso che dev’essere per forza contrario alla ragione o addirittura, come sostiene Sam Harris in Lettera a una nazione cristiana (Nuovi Mondi), «palesemente irrazionale». Non spetta a noi entrare nel merito delle argomentazioni teologiche, o meglio, ateologiche, di questi trattati. Da cronisti, ci limitiamo a registrarne il messaggio di fondo. Harris ha un piglio polemico, da pamphlettista. Denuncia l’influenza della fede nella vita pubblica e oppone un rifiuto «misurato ma deciso alle credenze che costituiscono il fulcro del fondamentalismo cristiano». Dopo di che, tira in ballo la ricerca sulle cellule staminali, le unioni omosessuali, l’aborto, la pillola anticoncezionale, l’Aids e i privilegi economici della Chiesa, in un minestrone che l’editore si compiace di vendere come «politicamente scorretto», come se la scorrettezza fosse in automatico una garanzia di qualità.
Meno tagliato con l’accetta è il pensiero di Paul Desalmand, nel suo Catechismo di ateologia (Piemme, lo stesso editore della Bibbia nella versione ufficiale della Conferenza episcopale italiana). Il filosofo francese, classe 1937, autore di una cinquantina di opere, si propone «di dare un’immagine fondata e corretta dell’ateismo e dei suoi valori». Da Epicuro a Camus, passando per Sartre e Voltaire, sostiene che solo il laico può essere davvero virtuoso, perché non si aspetta una ricompensa della propria virtù.
Ma in questo bric-à-brac divulgatorio, i concetti di laico e ateo si confondono in maniera pericolosa. Sempre tra i volumi freschi di stampa prendiamo per esempio Contro l’etica della verità, di Gustavo Zagrebelsky (Laterza, la casa editrice di Benedetto Croce). Il professore cavalca l’onda da par suo: parte da temi come i diritti civili, la famiglia, i rapporti tra i sessi e l’eutanasia per concludere che la Chiesa (chissà perché, solo quella cattolica) «coinvolgendo i credenti in un obbligo di coscienza rigido che lede la loro autonomia e la loro responsabilità nel campo delle scelte pratiche, impedisce il dialogo onesto, cioè improntato alla reciproca disponibilità ad apprendere». E comunque, a scanso di equivoci, sottolinea che la Verità e la Giustizia, se anche esistessero, sarebbero inconoscibili.
Da segnalare una distinzione sottile che cerca forse di gettare un ponte tra laici e atei. Laicità debole e laicità forte è il titolo di un saggio di Giovani Fornero, allievo di Nicola Abbagnano e continuatore del suo pensiero (Bruno Mondadori). Qui l’autore si interroga (e interroga altri filosofi contemporanei) sul dibattito fra bioetica cattolica e laica, graduando il concetto di «laicità». I laici forti, ci par di capire, sarebbero più vicini agli atei nelle scelte di bioetica. Insomma, e sempre se non abbiamo capito male, l’idea di Dio viene vissuta come una specie di inciampo sulla via del progresso umano e civile.
Ma non finisce qui. L’ateismo da banco novità si pasce anche di un corollario inevitabile: il darwinismo. Vale a dire: se Dio non c’è, l’uomo discende dalla scimmia, e in ogni caso la seconda constatazione conduce alla prima. Non è dunque una circostanza fortuita se per il lavoro di Michele Luzzatto (Raffaele Cortina, nell’autorevole collana «Scienza e Idee», diretta da Giulio Giorello) è stato scelto il titolo Preghiera darwiniana. Secondo un filo logico che non sta a noi commentare, si perviene alla conclusione che «chi si scaglia contro Darwin finisce col trovarsi piuttosto distante da Dio».
Ancora. L’editore Bruno Mondadori propone Origine e funzione della mente, di Giovanni Felice Azzone, già direttore del dipartimento di Patologia generale dell’università di Padova. Le religioni monoteistiche, sostiene l’accademico, difendono la tesi della vita e dell’anima come doni divini, con l’obbligo di rispettare le relative prescrizioni religiose. Ma così la morale degli esseri umani non sarebbe autonoma. E invece già Darwin indicava la morale come un evento che fa parte della storia naturale della specie umana e della sua evoluzione. In parole povere, la morale dipenderebbe dal funzionamento dei lobi frontali del cervello. Non una morale divina, dunque, ma una morale biologica, sviluppatasi parallelamente all’evoluzione.
Allo stesso tempo, L’evoluzione della mente, a cura di Telmo Pievani (Sperling & Kupfer, con introduzione di Giulio Giorello) raccoglie interventi di vari studiosi a una recente Conferenza mondiale sull’evoluzione. Tutti a cercar di spiegare «come l’evoluzione possa aver generato, fra i 150mila e i 45mila anni fa, la mente umana, ovvero quell’insieme unico di facoltà che comprendono il linguaggio, la capacità astrattiva, l’immaginazione, il senso morale e quello religioso».
Altri ancora scelgono una linea interlocutoria. È il caso dell’antropologo Francesco Remotti, che in Contronatura indirizza direttamente una Lettera al Papa (Laterza) giustapponendo al «mondo dei dogmi e delle certezze» quello della «scienza antrolopogica». E così via. Il tema, per la verità sempre attuale, riappare oggi come un caldo fiume carsico, pronto a trasformarsi in un tascabile che si può estrarre per far bella figura in società. Senza trascurare concezioni più sfumate e prudenziali. Come in Prima del Big Bang (Longanesi), di due matematici e fisici molto telegenici e ben noti ai francesi, Igor e Grishka Bogdanov. I due controversi gemelli sono enfant terrible in un mondo di divulgatori scientifici non esente da vanità, gelosie e colpi bassi.

In questo loro libro, un bestseller a Parigi e dintorni, si chiedono a che cosa assomigliassero lo spazio e il tempo prima dell’inizio di tutto. Non potrebbe esserci, all’origine dell’universo, un «codice cosmologico»? E in tal caso, come definirlo? In altre parole, Dio non esiste, ma forse sì.
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