È il grande tabù, il cuore duro di tutte le ideologie e i movimenti che sognano la rivoluzione contro il capitalismo. Chi tocca il lavoro si fa male e qualche volta muore.
Le paure di Sacconi si raccontano sottovoce, si sussurrano, quasi a non svegliare il destino che dorme. Per questo le parole del ministro, quel suo evocare il terrorismo, fanno rumore. È una paura che non si può nominare. Non c’è nulla di nuovo. Tutti quelli che hanno provato a cambiare le regole del mercato del lavoro sono finiti nel mirino. L’ideologia anticapitalista pura ragiona in modo binario: bianco o nero, zero o uno, operai o padroni, sfruttati o sfruttatori. In mezzo non c’è nulla. Non ci sono terze vie. È la regola aurea della lotta di classe. È antica e dice che i riformisti fanno il gioco del denaro, del capitale, della maledetta borghesia. I riformisti, pensavano le Brigate Rosse e tutta la cultura che li nutriva, sono i nemici più insidiosi. Il motivo? Perché cercano di migliorare in modo concreto le condizioni di vita dei lavoratori, li «imborghesiscono» e li allontanano dal vero obiettivo: la rivoluzione.
A scriverle così, queste cose, sembrano lontane un secolo, roba archeologica, macerie di un’epoca che non esiste più. Solo che se c’è un terreno dove la storia cammina piano è proprio quello del lavoro. Perché il lavoro è sopravvivenza, è pane, è futuro, ti sta sulla pelle, ti fa odiare, ti fa bestemmiare, ti cambia la vita. Il lavoro è tutto questo. Ma è la cittadella dove si arroccano tutti quelli che pretendono di fermare il tempo o di ritornare ai conflitti ideologici del Novecento. In questi decenni sono cambiate le facce, gli attori, gli orizzonti, ma non le teste. C’è una grossa parte della cultura di sinistra, in buona o cattiva fede, per rabbia o per recitare solo una parte, che ha finito per incarnare di fatto le ragioni dei reazionari. È la cultura che di fronte a ogni problema e mutamento sociale continua a dare una risposta binaria. Non sono black bloc e tantomeno terroristi, non spaccano vetrine e senza alcun dubbio non sparano, ma alimentano la convinzioni di chi continua a vedere il mondo in bianco e nero. Il risultato è che chi cerca di trovare una soluzione, imperfetta, a una questione delicata non è più un uomo, ma un nemico, un signore con una divisa o con l’etichetta di traditore delle masse. Quando un uomo non è più un uomo sparare diventa facile. Se non ci credete chiedete agli ex brigatisti. Quando hai una pistola in mano l’unico modo per non tremare è pensare che dall’altra parte, lì dove finisce il proiettile, non c’è qualcuno come te, ma un simbolo negativo, uno con la maschera del male sul volto.
È quello che è successo a Gino Giugni, con le gambe spappolate per aver firmato lo statuto dei lavoratori. È la macchia di sangue sul terreno che ha lasciato senza vita Tarantelli, D’Antona e Biagi. Sono le minacce a Ichino urlate in tribunale. Sono i file con il diario di vita quotidiana ritrovati nel 2004 nei computer delle nuove Br, dove si registravano idee e pedinamenti di tutti coloro che per scelta o per caso avevano a che fare con le riforme sul lavoro.
Il peccato di Biagi fu di intuire, prima di altri, che la società del posto fisso era al capolinea. Non c’era più una strada ferrata, ma l’imprevisto, l’incertezza, una corsa a tappa dove, soprattutto i più giovani, avrebbero condiviso i rischi dell’impresa. Biagi aveva visto i precari e si era posto una domanda: come tutelarli? È una domanda a cui ancora non è stata data una risposta efficace. Sappiamo che il welfare attuale è tarato sul posto fisso. Sappiamo che chi più rischia, paradossalmente, guadagna di meno. Sappiamo che ci sono due repubbliche del lavoro, una di garantiti e l’altra di gente senza paracadute.
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