Learco Guerra, la prima maglia rosa: una locomotiva su due ruote

Il lavoro da muratore, l’ingresso quasi fortuito nel mondo del ciclismo, la rivalità con Binda: (breve) storia di un atleta appassionante

Learco al termine di una corsa
Learco al termine di una corsa

La bici la usa solo per andare al lavoro. Il lembo di strada che congiunge casa sua al cantiere è un dedalo di soffici pendenze e liberatorie pianure. E lui, che di nome fa Learco, si diverte un mucchio ad affondare sui pedali. Anche perché è lo sfogo ideale per quella muraglia di muscoli che gli fasciano le ossa. Non è che si alleni: ci è proprio nato, possente. Sfreccia come un pazzo lungo i declivi di campagna e i sinuosi vicoli cittadini. Paura non ne ha. Come fai a patire la sudditanza di quei brividi che ti si infilano tra le scapole, quando di cognome fai Guerra?

Viene su, questo ragazzo che pare possedere i tratti e l’appellativo di un qualche eroe omerico, quando il secolo tira la tendina del sipario. Nel 1902. Però per capire che la bici deve essere inscritta nel suo destino ci vuole un bel po’. A ventisette anni lavora ancora con il padre: tira su muri, ripara tetti, stucca fenditure e gratta via intonaci. Più che onesto, ma non esattamente quel che si addice ad un campione. La bici è un dilettevole passatempo. Nulla più.

Ci vuole allora che un suo amico la combini grossa. Un giorno questo sodale si presenta al cantiere e gli porta due cose: una bici da corsa nuova ed una maglia della Maino, uno dei team più forti dell’epoca. Gli dice anche che, così agghindato, potrà tranquillamente presentarsi al via della Milano - Sanremo, perché è stato preso in squadra. Si tratta di una monumentale bugia bianca, ma cambierà per sempre il verso della personalissima vicenda di Learco.

Guerra

Lui in effetti ci va e corre, da perfetto - e inconsapevole - clandestino. Corre esattamente come quando è in ritardo per andare al lavoro. Pesta sui pedali con tribale attitudine, mista ad una passione che entusiasma fin da subito le ali di folla che si radunano ai bordi della strada. Appare chiaro fin da subito che lui è uno di quei tizi che ci mettono il cuore, e forse anche qualcosa di più. Non vince, perché le favole sono premute nei libri per bambini, ma si difende più che dignitosamente. Anche se il primo lo stacca di parecchio. Learco lo contempla con ammirazione mentre quello stappa una bottiglia di spumante dopo la traversata su due ruote. Si chiama Alfredo Binda. Entrambi ancora non possono saperlo, ma diverranno acerrimi rivali.

Altra spintina: i capoccia della Maino vengono a sapere dello scherzetto che gli hanno rifilato. Prima la prendono parecchio male. Chi è questo Guerra che si permette di correre con i nostri colori? Sbottano. Poi però, sbollita la rabbia, elaborano. E il risultato è palese: questo è una che ha carattere. Questo ha pedalato come se ne andasse della vita di tutta la sua famiglia. Uno del genere è meglio averlo in squadra.

Così - adesso che scoccano gli anni Trenta - Learco è finalmente un ciclista professionista. Viene fuori in fretta che lui il cronometro lo sbriciola. Inoltre è dannatamente abile negli sprint e in montagna si difende a colpi di sciabola. Entra al Giro d’Italia sgomitando. Vince due tappe e il flirt con la gente divampa ulteriormente. Guerra piace perché regola la sua corsa sulla manopola dei sentimenti. Non calcola, no. Non si sofferma a rimuginare sul fatto che se sprinta troppo presto poi darà fondo a tutte le sue energie e addio successo. Le decisioni sono tutte preda del suo muscolo cardiaco.

Ed è al Giro che, apprezzandone la cadenza costante e inarrestabile, un giornalista de La Gazzetta dello Sport lo battezza “locomotiva umana”. Un soprannome che lo identifica e che, una volta affibbiato, gli aderisce per il resto della carriera. Che prosegue incenerendo le tappe. In Francia, al tour, battaglia aspramente con Pellissier e indossa per due volte la maglia gialla. Ma il confronto totale è quello con Binda, rivale antipodico e letale, tutto calcoli e raziocinio.

Nel 1931, però, Guerra strappa un formidabile primato. La Gazzetta, che organizza la corsa, ha appena deciso che il leader deve indossare un segno distintivo inequivocabile. Una maglia di colore differente da tutti gli altri. Rosa, come il colore del giornale che raccontava l’epica disfida. Il 10 maggio è lui il primo ciclista della storia a infilarla. Ora anche Binda, che pure ha vinto tutto quel che si poteva umanamente sollevare, comincia ad avvertire un sudore freddo. Mentre sfoglia le pagine del giornale sportivo deve pensare, sarebbe legittimo, che quello è un animale pronto ad addentare il suo primato.

In quello stesso anno Alfredo prevale su Learco alla Milano - Sanremo, ma i ruoli si ribaltano ai mondiali di Copenaghen. Nel ’33 Guerra vince finalmente al traguardo nella città dei fiori, al prezzo di un duello incandescente e sfinente con l’indomabile rivale. Replica Binda: Giro nelle sue mani. Risponde il nostro: lo vince nel 1934.

Un confronto che prosegue per l’intera durata delle loro carriere. L’aristocratica eleganza del primo contro la popolare esplosività del secondo. Ogni eroe, del resto, ha bisogno di un antagonista di pari lignaggio per essere definito tale. Guerra trionferà ancora e ancora. Mai saturo, mai arrivato.

L’amore lucido delle persone è forse il successo migliore di una carriera tardiva. Il recupero in sella del tempo perduto è tuttavia fenomenale. In fondo non devi andare in bici al lavoro, quando la bici è il tuo lavoro.

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