Copia senza un originale, questo è luniverso di Cindy Sherman, con una retrospettiva al Martin-Gropius-Bau di Berlino fino al 17 settembre. La più grande mai dedicata in Europa al genio fotografico della Sherman, con i pezzi più rappresentativi dei cicli realizzati tra il 1975 e il 2005, provenienti dal Jeu de Paume di Parigi e dallarchivio della fotografa. La natura umana per Cindy Sherman si coglie con lartificio, quale unico filtro a disposizione, e lalchimia minima tra i colori e gli impulsi delle umane distorsioni. E lobbiettivo su tutto.
Nata nel 1954 nei pressi di New York - dove ha studiato e vive - Cindy Sherman si è iscritta alla Suny State University, dove scopre che non è la recitazione, ma la fotografia la vera passione, specie se coniugata alle sue ossessioni. Da bambina giocava nel guardaroba della madre e non per scimmiottare i grandi, ma per vedersi al modo dei personaggi fantastici dei racconti: i vecchi, le streghe, i mostri. In sintesi la bestia e non la bella, diventati poi, nella maturità dellartista, una specie a sé, un ibrido, che lei da soggetto stesso delle sue foto inscena, come nel ciclo Fairy Tales (1985). In una delle rare interviste ha detto: «Alluniversità mi sconcertava la visione sacrale dellarte. Così ho sognato un immaginario attinto da quella, ma comprensibile alluomo della strada». In ciò però non si deve intravedere unanima sociale, quanto la fine di un empireo, sconfessato ogni volta che lindividuo dietro ai suoi impulsi più alti, si consegna invece agli istinti.
Con Cindy Sherman si vive una dantesca discesa agli inferi, per ritrovare nel grottesco se stessi e lumano. Tre cicli in mostra segnano un processo via via sempre più radicale. Il primo è From Murder Mistery (1976), foto in bianco e nero con la Sherman truccata da criminali ipotetici o vittime stesse; sarà il caso a decidere come nel gioco Cluedo: figure su cui aleggia un comune senso di paura, di colpa o di pazzia repressa. Laltro ciclo è Untitled Film Still (1977-1980), che lha resa famosa per essere stato acquistato dal MoMa e messo subito in mostra grazie allo sponsor di Madonna. In esso le reminiscenze del cinema neorealista italiano sono evidenti nel richiamo ad Anna Magnani e Sophia Loren, con volti intensi stravolti dalle lacrime. Per passare a inserti «hitchcockiani» con espressioni alla Kim Novak in La donna che visse due volte (1958). Non imitazioni, ma richiami, che la Sherman estingue in un silenzio cronico da presagio di un terribile epilogo.
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