Per il cinema italiano c'è ancora (molto) domani

Gian Piero Brunetta, il decano della critica, scommette sui nostri registi. Anche se non sono Federico Fellini...

Per il cinema italiano c'è ancora (molto) domani

Nel 1983 il più autorevole critico cinematografico in attività, Giovanni Grazzini, pubblica un agile quanto fortunato volumetto. Il titolo è sin troppo scontato: Intervista sul cinema. Racchiude una gustosa conversazione con Federico Fellini. Il Maestro riminese parla a briglie sciolte. Alla domanda sulla crisi del cinema italiano risponde d'impeto.

Sono quarant'anni che sente parlare di crisi. Ad ogni stagione il coro funebre viene intonato. E allora va bene. Il cinema sta morendo. Anzi è già morto. Rimasto senza lavoro potrà tornare al giornalismo. Oppure prendere l'agognata e sempre rinviata laurea in giurisprudenza. Almeno il pane è assicurato.

La stessa domanda la giriamo a Gian Piero Brunetta, lo storico del cinema italiano. Dagli anni Settanta del secolo passato Brunetta mappa l'avventura della cinematografia nazionale. In una versione lunga (cinque volumi) e in una breve. Quest'ultima è uscita da Einaudi nel 2003. Ora la ripropone aggiornata: Cinema italiano. Una storia grande 1905-2024 (pagine 592, euro 30). Brunetta professore emerito è un ricercatore infaticabile. Il morbo della passione per il buio in sala, preso in gioventù, non l'ha abbandonato. Una passione totale coniugata mirabilmente con il rigore dell'accademico (per anni ha insegnato all'ateneo di Padova), e con una scrittura sempre limpida, mai ridondante, lontana dalle mode del momento.

Allora, c'è un domani per il cinema italiano? «Certo che c'è. E non è un caso se il film di Paola Cortellesi 35 milioni di euro incassati, contro ogni più rosea aspettativa abbia un titolo significativo quanto augurale: C'è ancora domani».

La pandemia ci era apparsa come il De Profundis del cinema nostrano. Incassi sotto la soglia di sopravvivenza; esercizi prossimi alla chiusura; diminuzione della produzione per il grande schermo. La cinematografia della Seconda Repubblica mostrava segni di chiaro abbassamento della qualità, tranne rare eccezioni. «Certo la luce si è affievolita. Non ci sono più registi del calibro di Fellini e Visconti. Il modo di produzione è cambiato. I mezzi economici a disposizione si sono ridotti. Il ruolo della televisione (e del formato adatto al palinsesto televisivo) è sempre più presente, talvolta addirittura vitale. Il panorama però non è desolante. Di talenti in circolazione ce ne sono: Sorrentino, Garrone, Andò». Tornatore... «Certo! Dovrebbe riprendere il progetto del film su Stalingrado che voleva realizzare Sergio Leone. Lui avrebbe la forza visiva necessaria per portare a termine un kolossal all'italiana».

Il successo di C'è ancora domani ha spiazzato tutti. Sulla carta aveva ottime possibilità. Ma da lì a diventare il secondo film italiano campione di incassi, davanti a Benigni e Pieraccioni e dietro soltanto a Zalone, ce ne corre. «La storia del cinema italiano ce lo insegna: non tutto si può prevedere. Rispetto alla 11 mia ricostruzione che si arrestava agli albori del XXI secolo, nei vent'anni successivi il ruolo delle donne, nella società come nella cinematografia, occupa un posto di novità e rilievo. Hanno portato una sensibilità e uno sguardo innovativo, diverso, di cui c'era davvero bisogno. C'è ancora domani è un perfetto esempio di una felice congiunzione del racconto del passato, ancorato magari a dei luoghi comuni (che comunque funzionano a perfezione), orientato da un punto di vista ben radicato nel presente. Il film è strutturato come il teatro di Brecht. Non c'è bisogno, ad esempio, di mostrare la violenza. Basta l'allusione, l'evocazione. Lo spettatore anche nella commedia sa cogliere l'aspetto crudele, drammatico della tragedia. Inoltre, non sfugge il sentito omaggio al grande cinema italiano del passato. Al Rossellini e al De Sica neorealisti, alla magnetica figura di Anna Magnani.

Il successo di C'è ancora domani non fa bene solo al cinema italiano in generale, poiché si aggiudica una fetta di mercato regolarmente appannaggio del prodotto nordamericano. Fa bene anche al lavoro registico delle donne: ne è un valore trainante. Per troppo tempo il loro cinema si è retto sulle spalle solide del lavoro autoriale di Liliana Cavani e su quello comico di Lina Wertmüller. Oggi c'è un vero esercito femminile in attività, in ogni singolo comparto: produzione, scrittura, recitazione, regia». Ma allora la crisi? Non è che aveva ragione Fellini: la crisi è un argomento sempre valido per inchieste, appelli, manifesti programmatici, chiamata alle armi, grida d'allarmi, catastrofismi rispolverati ad ogni stagione? «La storia dell'ultimo ventennio ci mostra che il cinema italiano è vivo e vegeto, ed ha anche eccellenti prospettive, estetiche, artistiche, produttive e commerciali. Magari si produce un po' troppo. Ma il complesso di inferiorità rispetto ad altre cinematografie sta scomparendo. Gli incassi del 2023 e dei primi mesi del 2024 sono stati eccellenti. Nella presente stagione mancheranno, a causa dello sciopero, numerosi prodotti statunitensi di grande richiamo. Quindi anche nei prossimi mesi lo spazio per il prodotto nazionale, commerciale e di nicchia, sarà molto ampio.

Una nota davvero straordinaria della passata estate è stata la presenza massiccia di spettatori nelle sale.

Per lungo tempo, in controtendenza rispetto ad altre realtà, la stagione estiva determinava il deserto in sala. Se questa tendenza verrà rispettata, il cinema italiano non potrà che avvantaggiarsene».

E allora viva Fellini! Viva Brunetta! E abbasso la crisi.

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