“Avatar 2”, più fonte di estasi visiva che esempio di grande cinema

Un film la cui tematica ambientalista diffonde coscienza ecologica, ma soprattutto un’esperienza sensoriale estatica. È grande cinema? No, è pura meraviglia visiva e sonora

“Avatar 2”, più fonte di estasi visiva che esempio di grande cinema

Avatar 2 - La via dell'acqua, il sequel del film che ad oggi è il maggiore incasso della storia del cinema, è un’esperienza che ha del miracoloso. Non paia blasfemo tale aggettivo, considerato che questo viaggio filmico regala allo spettatore il palpito di venire inglobato in un mondo sottomarino di incredibile ricchezza e bellezza. Complice il fotorealismo e il grande schermo (se potete optate per un IMAX e sarà qualcosa di indimenticabile), non vorrete più abbandonare scenografie digitali la cui magnificenza visiva è una sorta di arma di fascinazione di massa.

Restare a bocca aperta per la potenza e poesia colte attraverso la retina non rende però “Avatar 2” quel che in molti, in queste ore, si stanno sperticando a definire puro cinema o film capolavoro. Una cosa infatti è vivere un'esperienza straordinaria in termini di splendore visivo e di coinvolgimento sensoriale, un’altra è ritenere che questa sia condizione sufficiente a parlare di grande cinema. Davvero la settima arte può ridursi ad un giro di giostra, sebbene il più appagante e sbalorditivo, in un parco divertimenti tecnologicamente avanzato?

La lunga attesa

Può darsi che il sequel di Avatar oltre a rivoluzionare il concetto di grandiosità e a ricordare il potenziale della sala cinematografica in termini di sollecitazione videoacustica, si appresti a cambiare per sempre quello di cinema in direzione di una totale identificazione col termine intrattenimento. Ma se da un lato è giusto abbracciare con la mente il corso dei tempi, vale a dire accettare che il pubblico cerchi lezioni esistenziali e filosofiche da supereroi in calzamaglia o da famigliole di avatar, dall’altro lato sarebbe sbagliato cogliere acriticamente un progresso in questa mutazione.

La lunga attesa di tredici anni tra il primo e il secondo “Avatar” è ripagata per i motivi di cui sopra ma non a livello di corpus tematico, dialoghi e sceneggiatura, che paiono invece non all'altezza di quel che si chiama grande cinema.

L’opera ha a grandi linee la stessa struttura narrativa del primo capitolo, di cui sposta l’ambientazione da montagne e foreste all'oceano. Sposa ancora una volta massicciamente la causa ambientalista ma, se prima a venire omaggiati erano tribù amazzoniche e nativi americani, ora lo sono più i popoli del Pacifico. Il racconto non va a costituire qualcosa di autoconclusivo, orientando invece la vicenda verso linee narrative tali da riempire i quattro sequel già in programma.

La trama

L’incipit vede Jake Sully condurre una felice esistenza con Neytiri e i tre figli avuti da lei: Neteyam, Lo'ak e Tuk, ai quali si sono poi aggiunti due figli adottivi, la Na'vi Kiri e l'umano Spider. Su Pandora il presente è armonioso e paradisiaco, ma la pace purtroppo non è destinata a durare: dalla Terra giunge un'altra minaccia, un nemico ben più potente e determinato che in passato, il quale promette vendetta contro le azioni che Jake ha compiuto anni prima. La famiglia Sully si trova a lasciare la propria casa e a cercare aiuto, nascondiglio e accoglienza presso le tribù delle coste. Sopravvivere in un ambiente del tutto nuovo sarà inizialmente difficile ma costituirà anche una specie di nuova nascita.

Dicevamo che si resta ammaliati dalla biodiversità del mondo di Pandora e che le sequenze subacquee sono un oceano di suggestioni. Peccato che l’esotismo sia abortito ogni volta che sentiamo pronunciare la parola “Bro”, in un crescendo di fastidiosi perché smaccati atteggiamenti statunitensi. Probabile sia la scelta giusta per creare vicinanza con personaggi che diverranno il cuore di una vera saga familiare, ma non tutto è sacrificabile per soddisfare la nascita di un franchise. Vale anche in termini di sospesi, ossia di questioni aperte e abbandonate, che sicuramente sono oro per l’esigenza di serialità ma tolgono in termini di qualità e centratura ad “Avatar 2” inteso come singolo film.

Gli echi di altre pellicole vanno da “Tarzan” ai “Crodds”, da “Laguna blu” a “Moby Dick”, fino a lasciare il campo nel finale a un imperioso auto-citazionismo del regista James Cameron, quello su “Titanic”.

In termini di innovazione tecnologica il film è un unicum (come all’epoca lo fu il precedente). Il budget di 400 milioni di dollari ha permesso la costruzione di un’esperienza marina epica e commovente che si fa metafora delle difficoltà dell’uomo moderno.

In 192 minuti si ha modo di accennare a temi disomogenei tra loro: si va dal conflitto generazionale al fanatismo militare, dall’elogio della civiltà meticcia al concetto di famiglia come terreno di condivisione e accettazione. Quel che spicca però, tra tanti argomenti, è la volontà del film di educare all’empatia verso il creato e alla coesistenza con altre forme di vita basata sul rispetto reciproco.

In ogni caso, da vedere.

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