Dogman, Luc Besson porta a Venezia un film indimenticabile

"Ovunque ci sia un infelice, Dio invia un cane": questa è la frase di Lamartine per promuovere il nuovo film di Luc Besson, DogMan, presentato alla Mostra del Cinema di Venezia e già proiettato verso i premi principali

Dogman, Luc Besson porta a Venezia un film indimenticabile
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DogMan è il nuovo e atteso film del regista Luc Besson, incentrato su un ragazzo (Caleb Landry Jones) che dopo essere stato maltrattato dal padre e aver vissuto una vita piena di paura e solitudine, trova una seconda famiglia nei cani, che diventano i suoi amici, ma anche i suoi difensori. Il nuovo film di Luc Besson, appena presentato alla Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia è il racconto pedissequo della vita di Doug: un ragazzo alla ricerca di sé e della propria identità, che si confida in una lunga seduta con una psichiatra (Jojo T. Gibbs) a seguito di un arresto. Lo spettatore viene così messo a conoscenza della terribile infanzia vissuta da Doug, costretto a sottostare ai cambiamenti d'umore di un padre tiranno e violento che, durante l'ennesimo scoppio d'ira, prende il figlio e lo butta nella gabbia dove tiene i cani che usa per guadagnare qualcosa grazie ai combattimenti illegali. Ma l'atto terribile e mostruoso non va affatto come l'uomo aveva previsto:i cani non afferrano né aggrediscono il bambino, ma gli si chiudono intorno come una seconda pelle, un'armatura capace di proteggere il protagonista da qualsiasi cosa, compresa la mancanza d'amore. E saranno sempre i cani a rimanere al fianco di Doug, mentre egli cresce in un mondo che sembra non avere un posto per lui.

In senso stretto DogMan potrebbe quasi definirsi un film biografico, proprio per la sua ambizione a voler raccontare la storia di una vita. Un'esistenza che però si fa straordinaria perchè vittima della violenza e costretta a portare su di sé l'ombra perenne di quella brutalità. Doug è, in effetti, uno dei tanti anti-eroi che popolano la filmografia di Luc Besson. Un po' come Léon, il protagonista di DogMan è un ragazzo con le mani sporche di sangue, ma con l'anima pura, con l'anima gentile di chi ha visto la corruzione e invece di lasciarsi trascinare nelle spire di un girone infernale, ha scelto di vivere una vita che seguisse non la legge degli uomini, ma quella di un Dio benevolo che ha guardato nella sua direzione e, vedendo la sua infelicità così come la sua invalidità, gli ha mandato dei cani. In inglese, inoltre, la parola per cane, dog, è l'anagramma della parola per Dio, God. E Luc Besson gioca molto su questa cosa, rendendo il suo protagonista una marionetta dallo sguardo a tratti infernale, che però si sottomette al giudizio definitivo di un Dio che, nonostante tutto, sente ancora dalla sua parte.

Un film poetico e straziante

Con una colonna sonora studiata quasi al minimo dettaglio, che riesce a restituire al pubblico il sapore dolce-amaro della storia che viene rappresentata sul grande schermo, DogMan è un lungometraggio che sembra parlare una propria lingua, capace di miscelare vari toni e varie influenze: da quelle più apertamente pulp che sembrano strizzare l'occhio alla filmografia di Quentin Tarantino, a quelle invece intime, che sembrano portare Luc Besson al nucleo di quel cinema francese fatto di personaggi malinconici e struggenti, il cui destino e il cui percorso diventano sia macchie d'infamia che benedizioni attraverso le quali poter sperare in un lieto fine. E questa commistione di toni, colori e situazioni, rendono DogMan un film assolutamente unico, che non somiglia a nulla che sia già stato prodotto. E anche se sarebbe facile fare un paragone con il Joker di Todd Phillips, in realtà il film di Besson è più intriso di tristezza e rassegnazione, sebbene ci sia un costante filo di luce e di speranza che serpeggia dietro le quinte e che sembra rendere il protagonista, abbandonato a se stesso da chiunque avrebbe dovuto occuparsi di lui - la madre, lo Stato, i servizi sociali - come un moderno Robin Hood, che ruba ai ricchi per dare ai poveri e che cerca di riconoscere nello specchio un'immagine alla quale non sempre sente di somigliare. Ma il vero punto di forza del film si deve ricercare senza dubbio alcuno nell'interpretazione di Caleb Landry Jones, un vero e proprio camaleone, che riesce a cambiare e a trasformarsi in diretta, davanti lo sguardo sbalordito dello spettatore, che non può fare a meno di lasciarsi trascinare nel girone infernale in cui Doug è stato gettato. Un'interpretazione, quella dell'attore, che lo pone direttamente in pole position per la vittoria della Coppa Volpi alla Migliore Interpretazione Maschile.

Tra i monologhi di Shakespeare, le confessioni sussurrate con una sigaretta tra le labbra e una sua interpretazione di un brano di Edith Piaf, Caleb Landry Jones regala al pubblico una di quelle prove istrioniche che sono fatte per essere ricordate negli almanacchi della storia. Impeccabile.

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