Un inno all'italianità, ma senza aggiunta di demagogia

Nessuna nazione sopravvive denigrandosi, ed esistono anche retoriche nobili

Un inno all'italianità, ma senza aggiunta di demagogia
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da Venezia

Al netto di un po’ di retorica e di luoghi comuni, Comandante, di Edoardo De Angelis, che ieri ha aperto la 80ª mostra del Cinema, è una pellicola dignitosa e che si presta a qualche riflessione sia storica sia culturale. Liberamente ispirata a un fatto vero della Seconda guerra mondiale, il salvataggio dei marinai di un mercantile belga, il Cabalo, a opera dell’equipaggio del sommergibile italiano Cappellini che lo aveva in precedenza colpito a affondato, il film è una sorta di inno all’italianità, nel senso nobile del termine. «Siamo italiani» spiega infatti il comandante Salvatore Todaro al suo omologo belga stupito di tanta generosità e di tanto coraggio, perché oltretutto Todaro sta rischiando la sua vita e quella dei suoi uomini navigando in emersione, e quindi visibile al nemico, per proteggere e poi poter sbarcare il suo prezioso carico umano. La frase veramente pronunciata da Todaro, che nel film non c’è, ma che è però rimasta nel suo lancio pubblicitario, è però un’altra: «Agisco così perché ho duemila anni di civiltà alle spalle».

Ora, ed è un fatto curioso, Comandante esce in un momento in cui il tema dell’italianità, con tutti i suoi annessi e connessi, è al centro di polemiche che, francamente, lasciano un po’ il tempo che trovano, stiracchiate come sono per pura demagogia di parte.

Vale invece la pena osservare che quei «duemila anni di civiltà» rivendicati da Todaro si iscrivono in una lettura della storia d’Italia che, con i suoi alti e i suoi bassi, le sue miserie e le sue grandezze, è stata una costante nei secoli, una specie di fiume carsico eternamente riaffiorante nel mentre politicamente si disfacevano regni, imperi e repubbliche, comuni e signorie, si avvicendavano popoli e conquiste, asservimenti e distruzioni. Si potrebbe paradossalmente dire che mai l’Italia è stata così presente, come proiezione esterna e sentimento interiore, come quando era soltanto un’idea e/o un’astrazione e non uno Stato e/o una nazione modernamente intesi.

Naturalmente, come molti prima di lui e dopo di lui, il comandante Todaro sapeva benissimo che la «civiltà» che si caricava sulle spalle era stata spesso incivile, ma ciò che gli interessava era coglierne e incarnarne il verso giusto, quello degno di essere difeso e tramandato, e per il quale era anche onorevole sacrificarsi.

In altri termini, nessuna nazione sopravvive denigrando sé stessa, oppure vellicando i suoi istinti più bassi, le sue pulsioni più torbide.

Ci sono insomma retoriche nobili e retoriche ignobili, e l’impressione è che, a ottant’anni da quel gesto di eroismo del Cappellini e del suo comandante, come italiani abbiamo perso la capacità di distinguere, occupati come siamo in una guerra fra barbari che ormai hanno in comune soltanto la lingua, o meglio, a giudicare dal livello delle polemiche ideologico -politico -giornalistiche, ormai neppure quella.

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